Mio padre
“ Lo que el arbol tiene de florido vive de lo que tiene sepultado “
Rio Gallego, 7 gennaio 2006
“ Ci sono cose che non ho mai detto a mio padre. Ed è per questo che ogni volta che penso a lui torno ad un’infanzia di vento interminabile. Mi vedo camminare con lui mano nella mano, per le strade di un paesino che ora ricostruisco attraverso le cartoline di un’altra epoca, o attraverso le sue lettere nelle quali domandava dei miei studi e della salute della mamma. Ricordo le sue parole di addio che sempre ho pensato fosse temporaneo, il suo modo di intendere la vita con quel tenero rigore degli uomini. Quando penso a lui, penso alle notti d’inverno trascorse nella sua assenza, quando nel vetro appannato della cucina scrivevo il mio nome a lettere grandi, le lasciavo gocciolare e mi perdevo, guardandoci attraverso, nella strada che lui percorreva come un viaggiatore per andare al lavoro e che portava dritta al mare. Ricordo le mattine all’alba quando la voce del suo ritorno mi svegliava. Ogni 15 giorni quando mio padre lavorava nella miniera di carbone di Rio Turbio. Saltavo giù dal letto e a piedi nudi correvo fino alla soglia di casa, perché mi vedesse ancora prima che riuscisse a posare le borse di cuoio duro, colore del caffè. La mamma smetteva di tessere, gli andava incontro e lo baciava. Io la imitavo. Ricordo i suoi baci, dall’aroma di tabacco nero e mate. Ricordo le sere, quando vicino alla cucina economica lui mi carezzava la testa e senza dire una parola, riempiva la sua vecchia pipa di tabacco profumato. Sapevo che poi avrebbe iniziato a raccontare. Storie.
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Storie di uomini sconosciuti e di mari lontani. Forse reali o magari inventate. Non era importante perchè quelle notti di respiri leggeri seguivano i giorni violenti di malattia della mamma. Raccontava di capitani ed eroi nello stretto di Magellano, di tempeste e di danze indigene, di ragazze con le gonne a fiori e matrimoni felici, di driadi e tritoni marini. Quei racconti erano il nostro modo di comunicare e valevano più di mille parole quando lui era lontano. Il più delle volte dovevo affrontare sola la furia delle crisi di nervi della mamma, mentre lui scavava il ventre nero della terra per trasformare il carbone in pane. La mamma mi picchiava quando la depressione diventava più forte di lei. Allora, da quelle parti, credevano che quei raptus fossero segni di una stregoneria nera e li curavano con galli sgozzati e amuleti magici. Una volta, con papà, la portammo dalla “Dama del colmillo”. E’ una delle maghe più conosciute di tutta la provincia di Santa Cruz. Il viaggio fu infinito ma quando vedemmo la mamma svenire all’interno del circolo di conchiglie e pietre, mentre la Dama continuava a danzarle intorno brandendo un gallo per le zampe, pensammo veramente che il demonio avesse lasciato il suo corpo. Invece appena il giorno dopo, mentre mio padre stava lasciando la città per altri 15 giorni, la mamma si chiuse di nuovo in sé e ricominciarono le crisi. All’inizio scappavo, gridavo, piangevo e chiedevo perché. Alla fine, sola nel mio dolore e nell’incomprensione alzavo le braccia a proteggere il viso. Allora i racconti di mio papà si trasformavano nel suo abbraccio affettuoso e quei mari immaginati, impetuosi, che confondevano i destini degli uomini, lavavano via il dolore e mi portavano a momenti più felici.”
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La porta della sala si schiuse per un colpo di vento e una sottile lama di luce ferì il buio, dove solo brillavano le braci nel camino ormai spento. Nell’altra stanza Claudia stava ancora guardando la televisione con la piccola Maria che come ogni notte non voleva dormire. Mi alzai e richiusi la porta. Lo feci in fretta perchè faceva freddo lontano dal fuoco e perché non volevo distrarre Silvana da quella confessione. Nevica ancora, dissi guardando fuori dalla finestra che stava alle nostre spalle. Tornai sul tappeto, vicino a lei, sotto la coperta che ci univa. Guardammo per un po’ le braci scintillare, in silenzio. Poi Silvana riprese a raccontare.
“Una notte come questa sognai mio padre e il giorno seguente ricevemmo un telegramma. Nel sogno percorrevamo su un’auto rossa una strada, tra piante di calafate e di junquillo. Sorridevamo e lui mi carezzava la testa ogni tanto mentre cercava di accendere la radio che non voleva funzionare. Il telegramma raccontava di un incidente in miniera nel quale papà era rimasto gravemente ferito. Si sollecitava la presenza di un familiare.
Da quel momento la mamma non disse più una parola. Ricominciò a tessere e non mi rivolse più lo sguardo. Neppure un saluto quando quella sera, ripercorrendo i passi che papà aveva fatto infinite volte, andai a prendere l’autobus per la miniera. Scendendo per quella strada, ricordo che mi voltai per vedere se la mamma mi stesse guardando dalla finestra della cucina come nelle mattine d’inverno quando andavo a scuola. Scorsi solo un gesto di saluto della vicina di casa che si sarebbe presa cura di lei nei giorni della mia assenza. Sulla neve rimanevano le impronte dei miei passi come giorni prima vi rimasero quelle di mio padre.
Arrivai agli uffici della mina 1 la mattina all’alba assieme a decine di uomini che avrebbero dato il cambio a chi sotto terra aveva terminato il proprio turno. Anche papà avrebbe ripreso il bus verso casa quella sera, e la mattina seguente io avrei aspettato il suo bacio, in camicia da notte e in punta di piedi, sulla pietra fredda dell’ingresso di casa. Andai agli uffici sanitari e mi presentai. Mi chiesero quanti anni avevo. 16 risposi, anche se li avrei compiuti due mesi dopo. Mi chiesero se c’era mia madre. Dissi che non poteva venire.
Un braccio della miniera era crollato all’improvviso e aveva sepolto un piccolo gruppo di minatori. Inutili i soccorsi perché il posto era irraggiungibile a causa di un’infiltrazione d’acqua che aveva allagato il tunnel e reso impossibili i soccorsi. Tempo dopo appresi che l’amministrazione della miniera aveva atteso una settimana prima di avvisare i familiari, nel tentativo di riportare in superficie i corpi. Una gentile signora mi riconsegnò gli effetti personali di mio padre. Le due sacche di cuoio, i vestiti, alcuni giornali e una piccola radio di plastica rossa. Un sacchetto di tabacco da pipa e qualche sigaretta senza filtro. C’era anche una busta di carta gialla con dei soldi, e una pagina del quotidiano di Santa Cruz che annunciava l’arrivo della tournèe di Fito Paez. Si chiamava “El amor después del amor”. L’articolo riportava il prezzo del biglietto di 50 pesos e la data unica del concerto il 18 Ottobre. Il giorno del mio compleanno.
Raccolsi tutte queste cose senza neanche una lacrima. Sapevo cosa avrei dovuto fare. Presi il primo autobus diretto verso la costa e di lì continuai fino alla fine del continente. Arrivai a Cabo Virgenes un pomeriggio alle 4. Ricordo lo sguardo perplesso dell’autista quando scesi dall’autobus nel mezzo del niente. Ero contenta di restare sola con le acque dello stretto di Magellano che mi riempivano gli occhi e il cuore. E che vedevo per la prima volta.
Mi avvicinai alla riva camminando sulla terra soffice e umida. Portavo sulle spalle le borse di papà, e la leggera consapevolezza che ciò che stavo per fare lo avrebbe fatto felice. Percorsi il molo di Cabo Virgenes fino al fondo. Gettai alle onde tutte le sue cose. Vidi le due borse di cuoio danzare in balia delle onde come se dovessero galleggiare per sempre. Poi anche loro sprofondarono nelle acque fredde dello stretto, per raggiungere quegli eroi che mio padre cantava, che io sognavo, e tra i quali oggi, forse, c’era anche lui. Camminai per molte ore, piangendo. Con i soldi del mio regalo di compleanno finanziai la mia fuga dalla realtà. Andai prima a Ushuaia poi a Porvenir, perché offrivano un lavoro da impiegata al porto. Pochi mesi dopo decisi di andare a Buenos Aires, ma la città non fa per me e dopo un anno nel quale lavorai come cameriera e poi come commessa in un Pharmacity decisi che era arrivato il momento di tornare al sud. Di rivedere mia mamma e di mettere in ordine il passato. Fu nel viaggio verso Rio Gallego che conobbi Guillermo, il padre dei miei figli.”
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