“mi sa dire come lo hanno assassinato?”
“asfissiato, con una busta di plastica”. Dopo quelle parole solo il silenzio, senza fine come la morte.

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Quando il poeta Javier Sicilia riceve questa telefonata nel cuore della notte, si trova nelle Filippine per ricevere un premio. Mentre nel suo Messico il figlio Juanelo, 24 anni, viene sequestrato e ucciso brutalmente insieme ad altri sei ragazzi. Vittima innocente di una guerra che negli ultimi anni ha seppellito 160.000 morti, che ha costretto a migrare 250.000 persone e che cerca almeno 40.000 desaparecidos.

Affogato in un vuoto indescrivibile, sul volo che lo riporta in Messico, Sicilia compone un poema per il figlio, che termina con la parola silenzio. Poi mette un punto, e giura che non scriverà mai più, “perché di fronte a simili barbarie e alle menzogne di chi le copre, l’uomo non merita più la parola; il silenzio è molto più dignitoso”. Il giorno stesso del funerale, Sicilia annuncia che avrebbe marciato fino alla capitale, per vedere in faccia il Presidente della Repubblica Felipe Calderon. Lui è responsabile di tutte quelle morti, e lui deve una risposta al Paese intero.

Portando alta la bandiera della nazione, partono a piedi dalla città di Cuernavaca poche decine di amici, ma a mano a mano che il corteo si avvicina alla capitale, altri si uniscono a loro. All’arrivo nella piazza del Zocalo, ai piedi del Palazzo Presidenziale, si contano almeno duecentomila persone. Sono le famiglie dei desaparecidos che quel 5 maggio 2011 hanno vinto la paura.

“Signor Presidente, le chiedo un minuto di silenzio per i suoi morti” sono le prime parole che Javier Sicilia dice a Felipe Calderon. Poi si toglie il crocefisso che porta al collo fin da bambino, e glielo porge insieme a una lettera. Non è la lettera di un padre, ma quella di tutti i padri della nazione che cercano nella disperazione i propri figli.

Parole durissime, che accusano con la più profonda indignazione il governo e la classe politica di corruzione, violenza, crudeltà, crimini verso l’umanità. E che conclude con una frase che diventa il grido di tutte le vittime: “estamos hasta la madre”. “Non ne possiamo più”.

In tutto il paese iniziano a sorgere movimenti spontanei di protesta. I parenti dei desaparecidos si incontrarono per la prima volta riconoscendosi, condividendo il proprio dolore e scoprendo di non essere più soli.

“Quando ti fanno sparire un figlio hai già fatto i conti con il peggio. Non hai più paura di nulla. Se ti ammazzano bene, se non ti ammazzano meglio” dice Sicilia col suo fare stanco e gentile. Ha gli occhi di chi non ha più lacrime da piangere ma non si arrende alla vita. Porta al polso l’orologio del figlio, perché “mi sono rimaste solo le cose che lui ha toccato” e per ricordarsi ogni giorno che il tempo non si è fermato.

“Impossibile immaginare il domani” dice scandendo bene le parole Celia Salinas. Le hanno portato via la figlia Jessica una sera di sei mesi fa. Aveva 28 anni ed era incinta di 39 settimane. “Maximiliano, si sarebbe chiamato il bambino”. Mi mostra la foto, orgogliosa, della figlia che si accarezza il pancione. Poi mi porta al piano superiore della casa per mostrarmi quella che sarebbe stata la stanza del nipotino. Colorata e con i cassetti pieni di vestiti profumati e ben riposti. Prende in mano delle scarpine di raso celeste e dice sorridendo “quando torneranno queste non gli andranno già più”. Poi mi guarda e inizia piangere. “Non vedo l’ora che la mia altra figlia si sposi. Così almeno potrò morire”.

Non c’è destino peggiore del non aver destino. Questa è la condizione delle migliaia di persone in Messico a cui hanno fatto scomparire con la forza un familiare. Non c’è pace e non c’è lutto per loro, perché non hanno neppure un pezzo di corpo sul quale piangere. E’ come se all’improvviso se li fosse mangiati la terra. Resta il ricordo e il dolore indescrivibile di queste madri. Il loro sguardo che insegue ogni persona, ogni cosa, alla ricerca del proprio figlio. Ognuno fa come può, aggrappandosi ciecamente alla speranza, per sopravvivere.

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Melchor Flores da ormai tre anni continua a servire la colazione, il pranzo e la cena al figlio Hernandez. Come se ancora fosse seduto li con loro, a quella tavola nella quale ha mangiato ogni giorno per 25 anni.

Maria Nuñez gira per i quartieri della città di Torreon, terra del feroce gruppo narcos Los Zetas, gridando il nome del marito Alfredo “cosi se lo tengono nascosto in qualche casa, almeno sa che non ho smesso di cercarlo”.

“Io so che sono viva perché so che respiro” dice Iris Rivera che gira il Paese intero con la foto del figlio Jose, scomparso il giorno del suo ventunesimo compleanno. Domanda in ogni strada e dorme nelle parrocchie che incontra sul suo cammino. Non si da pace, e a nulla serve ricordarle che forse vale la pena vivere per i vivi e per le sue altre due figlie che ha lasciato.

German Jaime ad una riunione di familiari di desaparecidos, d’improvviso si scopre a ridere per la prima volta dopo due anni dalla scomparsa del figlio. Con un gesto secco si porta la mano a coprirsi la bocca come vergognandosi, perde lo sguardo nel vuoto e scoppia a piangere. “Come si fa a ridere se non sai più niente di tuo figlio?”

“Se è morto sarà stanco” dice Araceli Rodriguez, madre di un giovane poliziotto scomparso, “perché non ha un posto dove riposare”. “E se non è morto avrà fame? Freddo? Sete? Lo staranno torturando?”.

Ogni giorno queste famiglie si fanno mille domande, e finiscono sempre nella stessa risposta. Il vuoto.

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Si calcola che per ogni caso di scomparsa denunciato, ce ne siano 25 taciuti. Per paura di finire come Marisela Ortiz o le altre decine di madri assassinate per aver cercato i responsabili del loro dolore.  E’ un suggerimento che tra una minaccia e l’altra arriva spesso a queste madri: “non cercare i colpevoli, limitati a cercare tuo figlio”. Perché cercare i colpevoli qui significa non soltanto scontrarsi con gli interessi dei narcos ma significa soprattutto muoversi nella fitta rete che li lega alle istituzioni, alla polizia, all’esercito. In Messico tanto i narcos quanto la polizia adottano la tortura come metodo di dissuasione, entrambi hanno “carceri” clandestine, usano le armi e la paura, rinchiudono i loro prigionieri con un cappuccio in testa in case che chiamano “di sicurezza”. I narcos e la polizia vivono entrambi dello stesso malaffare.

Sei anni fa il governo di Felipe Calderon, dichiarando guerra al narcotraffico, colpì i vertici dei cartelli della droga. Non aveva in mente alcuna strategia che non fosse quella della propaganda. Il risultato fu che i cartelli di narcos, formatisi nelle migliori accademie militari e armati come un vero esercito, si moltiplicarono come teste dell’Idra avvicinandosi a qualsiasi cosa portasse profitto. Prostituzione, sicariato, estorsione, vendita di organi e di esseri umani. Tutto questo però non può accadere senza la collusione delle istituzioni. Corrotte in modo sfacciato e spaventoso anche sotto il governo del nuovo presidente Enrique Peña Nieto.

“Il vostro potere oggi serve solo per amministrare disgrazia” scrive Javier Sicilia nella sua lettera al Presidente. “il popolo messicano ha perso fiducia in voi, nella polizia, nell’esercito. Non ne possiamo più della vostra violenza, perdita di onore, crudeltà. Ci chiedete che la morte impunita dei nostri figli diventi solo un dato statistico al quale ci dobbiamo abituare”

E’ proprio nelle mani della polizia che spesso spariscono le persone, i documenti, le vite. Perfino negli uffici del governo è scomparso un ragazzo di appena 17 anni. Mariano era stato sequestrato, la polizia lo aveva ritrovato, legato e picchiato, in un furgone. Lo consegna agli uffici locali del governo perché venga interrogato e riconsegnato ai familiari. Da qui Mariano chiama la madre. Il tempo di andare a prenderlo, mezz’ora, e già qualcuno se lo era portato via per sempre. “Sarà scappato con qualche bella ragazza” le è stato detto.

“Menzogne, come quando hanno assassinato con gli elettrodi il ventenne Jethro Lopez. Hanno sostenuto che il ragazzo si era sentito male durante l’interrogatorio e loro hanno tentato di rianimarlo. Con due cavi elettrici. Perfino il medico della polizia si rifiutò di firmare il certificato di morte” raccontano Jose Martinez e Juliana Quintanilla, sindacalisti della vecchia guardia e difensori dei diritti umani. Nel loro piccolo ufficio nella periferia di Morelos raccolgono ogni giorno nuove testimonianze di desaparecidos. Riempiono migliaia di fogli, incrociano informazioni, cercano di aiutare i parenti delle vittime in una delle città più violente del Messico. “Tutto questo un giorno arriverà davanti alla Corte Penale Internazionale” dicono senza celare la loro rabbia.

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La cosa più assurda di tutta questa storia è che dietro i numeri di morte terrificanti che ridisegnano ogni giorno i confini del Messico, non c’è alcuna strategia, ragione politica, manovra militare. Non ci sono i campi sotterranei dove i narcos costringono ai lavori forzati i desaparecidos, come vorrebbero i familiari delle vittime. Ci sono invece le fosse comuni, come quelle di Guerrero e Sinaloa, con i loro 24 mila corpi ammassati dentro. Non ci sono luoghi di indottrinamento dove i narcos convincono i desaparecidos a unirsi a loro, come pensa Antonio Mena, padre della bella Rocio . Ma ci sono i pozzi di acido dove vengono sciolti i corpi dopo averli privati degli organi. Non c’è neppure lo Stato fondato sui diritti dell’uomo, come recita il primo articolo della costituzione Messicana, ma c’è uno stato criminale che non può spiegare come mai manchino decine di migliaia di suoi figli, giovani e innocenti.

Il Messico sta crescendo una generazione nella paura e nel sangue. Ma forse, nei suoi conti d’oro, non ha considerato l’amore di queste madri e questi padri. Che, abbracciandosi oggi per la prima volta in spoglie stanze di periferia, piangono e lottano insieme per ottenere pace e giustizia e ridare dignità a questo Messico . “Questa è forse la vera poesia” dice Javier Sicilia, con un sospiro di rassegnazione, abbassando lo sguardo.