Nessun uomo al mondo più di Kevin Hines può dire che quando tutto sembra finito, la vita è pronta a rinascere. In quattro secondi.

“Testa indietro, gambe dritte, e Dio mi salvi”. A queste tre cose cercava di pensare mentre volava nel vuoto, per ottanta metri, dal Golden Gate Bridge. Quattro secondi di caduta libera, poi l’impatto con l’acqua. Le ossa delle gambe si frantumano una dopo l’altra. Poi il torace e le braccia, in un istante. E giù, quaranta metri sotto le acque gelide del Pacifico.

 

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Kevin, diciannove anni, si era buttato per suicidarsi e aveva scelto il ponte più famoso della sua San Francisco, perché li vanno tutti quelli che vogliono farla finita. Quasi uno alla settimana nello scorso anno. Ma nel momento in cui Kevin ha abbandonato il suo corpo al vuoto, tutto è cambiato e si è aggrappato al cielo. “Appena mi sono buttato è come se il male fosse uscito dalla mia mente, e non volevo più morire” dice. Con le braccia spezzate si affannava cercando la superficie tra i flutti fangosi della Baia, travolto dalle sei correnti oceaniche che qui si scontrano. “Ancora sott’acqua mi sentii sfiorare da una cosa viva. Pensai a uno squalo, e maledissi il destino” racconta. Poi si rese conto che questo animale lo spingeva sempre più su, col muso, con la schiena, fino a tenerlo a galla con piccole spinte. Era un leone marino, che lo aiutò per dodici minuti, fino all’arrivo dei soccorsi. Questo fu per Kevin Hines il battesimo di una nuova vita.

A dire il vero, Kevin non sarebbe neppure il suo nome. Lui si chiama Giovanni Maria Ferralis ed è di origini sarde. Suo padre Martino, cagliaritano, emigrò a San Francisco negli anni 70’ e li conobbe Marcilla, una giovane messicana che presto divenne sua moglie. Erano emigrati per cercare una vita felice, e invece trovarono prima l’eroina. Vivevano spostandosi da un motel all’altro, scappando ai creditori e alla polizia. E lasciando il piccolo Giovanni da solo, chiuso in camera per giornate intere, nelle peggiori periferie della California. “Loro se ne andavano e io piangevo disperato, ma nessuno sembrava sentirmi. Finché un giorno, avevo poco più di due anni, bussarono alla mia porta. Era la polizia”. Giovanni fu portato in un orfanotrofio, e i genitori in prigione. “Trascorsi quasi tre anni in quella casa per senza padre, con la speranza che una famiglia vera mia accogliesse.

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Ci furono vari tentativi di adozione, ma dopo un po’ di tempo mi riportavano sempre indietro” racconta oggi. Tra tutte le persone che andavano li a cercare un figlio, Giovanni si era affezionato a un uomo di nome Patrick. E di quella strana amicizia qualcuno doveva averne parlato anche a Martino, il suo padre biologico. Perché un giorno, appena uscito di galera, lui si presentò da questo Patrick e lo supplicò di prendersi cura del figlio. Il giorno seguente a quell’incontro Martino fu assassinato in una strada di Mission District, e Patrick firmò la richiesta ufficiale di adozione, cambiando il nome di Giovanni per Kevin, nella speranza di aiutarlo a dimenticare il passato.

“Patrick è un buon uomo. E’ uno che si è fatto da solo, diventando un grande professionista della finanza. Ha voluto una famiglia, ed è riuscito a costruirsi anche quella. Finché tutto cominciò a cadere a pezzi, quel giorno dei miei diciassette anni”. Kevin stava giocando a football nella squadra della scuola quando all’improvviso si convinse che tutti giocavano contro di lui. Si ribellò, gridò sbattendo a terra un compagno. Era così furioso che l’allenatore lo fece accompagnare a casa. Ma non si calmava e la madre lo portò da un medico. “In quell’ambulatorio pensavo ci fossero altri due pazienti oltre a me. E io parlavo come tre persone diverse” ricorda oggi Kevin. La diagnosi fu severa: bipolarismo.

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Da quel giorno le crisi diventarono un’ossessione. Si sentiva braccato, paranoico, impaurito. “Su e giù, su e giù, su e giù. Il mio umore cambiava mille volte al giorno. Era come un’onda gigantesca che mi investiva nei momenti più inaspettati. Avevo smesso di dormire da due settimane. Parlavo da solo. Ero distrutto, sfinito”. Kevin pensava che quella vita non sarebbe mai cambiata, che sarebbe impazzito. Da solo, nella sua camera tappezzata di poster dei San Francisco 49ers, digitò una parola su Google: suicidio. Le voci che ne uscirono gli sembravano incitarlo alla fine, e una su tutte lo colpì: chi si butta dal Golden Gate Bridge muore al primo impatto con l’acqua. Quelle parole erano per Kevin una calling card, e quello stesso 24 settembre scrisse una lettera alle persone care. Chiese perdono ai genitori e gli disse che li amava. Disse al suo miglior amico di trovarsi un altro miglior amico, e alla sua fidanzata che lei non aveva nessuna colpa in quella decisione. Poi prese l’autobus e scese alla fermata del ponte. “Ho camminato su e giù per quaranta minuti, piangendo disperato” dice Kevin. “Speravo che qualcuno si accorgesse di me, che qualcuno mi aiutasse”. Una donna bellissima e con grandi occhiali da sole lo avvicinò: “Le dispiace farmi una foto” gli chiese. Lui gliene fece cinque, poi le restituì la macchina fotografica e si avvicinò alla balaustra. “Una voce dentro mi disse: salta ora”.

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Erano le undici del mattino quando il padre Patrick, nel suo ufficio all’ultimo piano della Millennium Tower, ricevette una telefonata. “Mr. Hines? Suo figlio si è buttato dal Golden Gate Bridge”. Così, non una parola in più né una in meno. Patrick si fece accompagnare dalla segretaria al Trauma General Hospital e trovò suo figlio in una camera delle emergenze, trafitto da mille tubi che gli uscivano dal corpo. “Perdonami papà” riuscì a dire Kevin. “No, sei tu che devi perdonare me” rispose lui scoppiando in lacrime. Kevin, che non aveva mai visto il padre piangere, si addormentò con quell’immagine in un coma farmacologico.

Ma la vita gli aveva riservato ben altre meraviglie. Uscito dall’ospedale, entrò in un programma di recupero che gli fece trascorrere molti mesi in una clinica psichiatrica del South San Francisco. “Era un posto infernale, pieno di dolore, di violenti, di grida, di suicidi cronici. Ma a quel posto devo molto. Ho visto sul volto degli altri le mie paure, e lentamente ho imparato a gestirle”. Kevin conosceva bene le dinamiche del male, ne riconosceva ogni istante, capiva quando quell’onda stava per arrivare, e ben presto iniziò a rendersi utile. Era diventato quasi un consulente per gli infermieri del suo reparto, e questo gli valeva qualche privilegio: andare a messa con il padre, vestirsi con abiti normali anziché il pigiama bianco dei pazienti, e a lui era dato l’incarico di fare gli annunci al megafono. Un giorno d’estate, proprio mentre stava per annunciare l’ora del pranzo, Kevin si sentì picchiettare sulla spalla. “Mi voltai. Era una ragazza bellissima e mi innamorai. All’istante” racconta. “Scusi, lei è un infermiere” gli chiese lei. “No, sono un volontario” rispose lui senza esitare. Si chiamava Margaret ed era la cugina di Kirk, un giovane paziente arrivato da un paio di settimane. In tutto quel tempo non aveva detto neppure una parola. Droga, molta droga. Se ne stava seduto sulla sua sedia a rotelle, nell’ultima stanza del reparto, a guardare il mare. Kevin accompagnò Margaret lungo il corridoio fino alla stanza di Kirk ma quando furono sulla porta e Kirk li vide insieme esclamò: “Hei, ma quello è un pazzo che ha saltato dal ponte, non parlare con lui”.

Margaret andò a trovare tutti i giorni il cugino Kirk, e non mancò mai di salutare anche Kevin. I tre diventarono buoni amici, e quando furono fuori di li, le loro chiacchierate si trasferirono dalle panche di legno dell’ospedale alla tavola domenicale della mamma di Margaret. Fu il giorno del ringraziamento di otto anni fa che Kevin si fece avanti, invitando Margaret a cena fuori.

“Era la prima volta che uscivamo soli, e io ho combinato un disastro” dice Kevin sorridendo. Aveva indossato la sua camicia bianca più bella e l’aveva portata all’Original Joe, il miglior ristorante italiano di North Beach. Kevin aveva ordinato spaghetti all’aragosta, anche se non ne aveva mai vista una. “Pensavo che l’aragosta venisse servita in polpette, invece me la portarono tutta intera sopra una montagna di spaghetti”. Iniziò ad armeggiare nel tentativo di aprirla, sotto lo sguardo incuriosito di Margaret. Ma solo dopo aver macchiato tutta la camicia e la tovaglia con il sugo, riuscì a toglierne il guscio. Decise di spruzzarci del limone sopra, ma dal limone uscì un getto che andò dritto nell’occhio di Margaret. Lei gridò, iniziò a lacrimare, rigandosi il volto di mascara. “Era ridicolo, come mi muovessi combinavo un guaio, e tutti ci guardavano. Quando le ho ribaltato il burro sul decolleté abbiamo pensato che forse era meglio tornare a casa”.  Qualche giorno dopo Margaret e Kevin si ritrovarono nuovamente a cena della mamma di lei. Sul finir della serata andarono sul tetto di casa a guardare le stelle, e li, sotto il cielo di San Francisco, si scambiarono il primo bacio.

Si sono sposati sette anni fa, e da allora non si sono mai separati un solo giorno. Margaret conosce ogni angolo delle emozioni di Kevin, e sa come aiutarlo quando la malattia si affaccia all’orizzonte. Gli prende la mano e la stringe forte. “Questo è vero Kevin, queste nostre mani insieme” gli dice. E lui capisce che tutto il resto che la sua mente vede è solo un’orribile fantasia.

“In un giorno della mia lunga degenza in ospedale, si affacciò sulla porta della camera un prete, mingherlino, con un rosario in mano e il vangelo in una tasca. Mi chiese perché fossi li. Sono saltato dal Golden Gate gli dissi. Si, e io sono il Papa, mi rispose lui andandosene”. Pochi istanti dopo Kevin lo vide rientrare, pieno di scuse e di mortificazione. Si chiamava Padre George. “Mi accarezzò, pregò per me, e mi fece promettere che una volta fuori di li, avrei raccontato al mondo la mia storia” racconta Kevin, che oggi ha trasformato quell’impegno in una missione. Porta la sua testimonianza nelle scuole, nelle università, nelle aziende, dalla Silicon Valley a New York. “Perché chi è in difficoltà ha bisogno di una voce amica, e non è vero che chi si vuol suicidare prima o poi lo farà comunque. Il 96% di chi viene salvato nell’atto del suicidio, non ci prova più. Ci si uccide perché si è arrivati all’apice della solitudine, e perché ci si presenta l’occasione” dice Kevin. Per questa ragione, attraverso la sua testimonianza, ha raccolto in sette anni i soldi necessari per far installare una rete di protezione sul Golden Gate Bridge. Settantasei milioni di dollari, che finalmente nel 2015 metteranno fine a decine di gesti disperati. Quarantasei solo nel 2014, che portano il Golden Gate in testa alla macabra classifica dei posti più scelti al mondo per togliersi la vita.

Un anno dopo il suo tentato suicidio, Kevin volle ritornare al ponte, e chiese al padre di accompagnarlo. Raccolsero un fiore viola da un’aiuola e camminarono lentamente. Padre e figlio, tenendosi per mano, fino al luogo del salto. Piansero e pregarono insieme. Poi Kevin gettò quel fiore e lo osservò cadere, ondeggiando tra le carezze del vento. Quando si posò sull’acqua, un leone marino emerse.

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