Padre Solalinde: l’uomo più minacciato del Messico
Al mio arrivo è vuota, come un teschio, la piccola Città di Ixtepec. Dopo un viaggio lungo e faticoso, il bus mi lascia davanti ai binari del treno, che come una ferita attraversano quella manciata di case colorate. In questo sud, il più povero e polveroso del Messico, vive un prete, esiliato perché crede nell’amore fraterno.
Domando dove si trovi l’albergo dei “Fratelli in Cammino” e quel Padre che aiuta i migranti. Mi indicano la ferrovia e una strada di terra che corre tra bassi arbusti, alberi di Guayacan e il cielo azzurro dell’alba. Porta a un campo, recintato da un muro alto e da filo spinato. Dentro, tra casette di cemento nudo, vive Padre Alejandro Solalinde.
Sottile come il suo sguardo, mi da il benvenuto e mi abbraccia, mentre le sue guardie del corpo gli si stringono alle spalle. Non ha tempo per nessuna accoglienza cerimoniosa. “Andiamo, c’è molto fare” dice prendendomi sotto braccio. “Anche oggi mi hanno lasciato solo”.
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A guardarsi intorno non si direbbe. Tra quelle disordinate mura dipinte di azzurro e di rosa, sotto il caldo sole del mattino, passeggiano centinaia di uomini. Sono i migranti, che scappano dalla miseria centroamericana e sognano una vita negli Stati Uniti. Trasandati nell’aspetto, ma con lo sguardo docile di chi ha provato il dolore e cerca dignità. Chiunque di questi si farebbe in quattro per aiutarlo.
Sono sufficienti poche parole di Padre Solalinde però, per capire che la solitudine alla quale si riferisce è quella dei palazzi, delle istituzioni, dei poteri forti, della sua stessa Chiesa che lo ha abbandonato. “Il giorno che ho scelto di aiutare i migranti, non mi aspettavo di trovare tanti nemici e tanta sofferenza. Ma anche questo fa parte del Vangelo, che viene scritto ogni giorno da ognuno di questi uomini, che lasciano la propria terra per cercare un futuro, aggrappati ai treni della morte e alla parola di Dio”. Mi indica una giovane donna dalla bellezza indigena che, seduta su una pietra, allatta al seno il suo bambino. “Si chiama Sonia” mi dice. “E’ arrivata nel cuore della notte. Ha lasciato il suo Guatemala molte settimane fa. Sognava di far nascere suo figlio negli Stati Uniti. Invece ha partorito nel ventre di un vagone merci, tra gli sguardi di centinaia di persone che le rubavano la dignità e il frastuono del treno che risucchiava il primo pianto della vita.
Padre Solalinde è un uomo austero, ma ha lo sguardo e le parole di chi sa amare e non ha paura di farlo, nonostante sia l’uomo più minacciato di morte dell’intero Messico. Ha trascorso una vita nel rispetto dell’ufficio sacerdotale fino a quando, una mattina di agosto del 2006, visitando un amico prete, il suo sguardo cadde sui volti affamati e stanchi dei migranti. A centinaia si ammassavano lungo la ferrovia, sotto il sole torrido dei tropici. “Sono moltissimi, hanno fame e sete e sono a un isolato di distanza dalla tua parrocchia” disse all’amico. “Dopo un po’ ci fai l’abitudine… Conosco un buon ristorante qui vicino, se ti va”.
“La sua ipocrisia come quella della Chiesa mi furono chiare in un istante. Io gli parlavo della fame dei poveri e lui mi rispondeva con la sua fame”.
Quel giorno Padre Solalinde si trovò a un bivio, nel punto in cui la chiesa da sempre si divide, mostrando tutta la distanza che separa le cattedrali di marmo dalle mangiatoie a cielo aperto. Ma davanti a quel bivio non ebbe alcun dubbio, “era come scegliere se vivere o morire”. Decise di farsi pane per gli altri, di spezzarlo, di benedire i poveri, difendere i migranti, e colmare la loro solitudine con i gesti, oltre che con le parole. Ha piantato un Cristo in mezzo a un campo, ha scritto “benvenuti migranti” lungo la ferrovia. E da quel giorno sfama settantamila clandestini ogni anno che Dio manda in terra.
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Al suo fianco c’è solo qualche giovane migrante a cui un destino crudele aveva rubato perfino la speranza. Davanti a quelle storie neppure la fede di Padre Solalinde trovò risposte, allora gli chiese di camminare insieme.
Per aver denunciato le collusioni tra narcotrafficanti e polizia, nel luglio 2011 i federali lo trascinano via come un delinquente dalla sua casa-albergo e lo mettono in carcere insieme ai suoi migranti. “Pregavo e cantavo insieme a loro in cella. Ma ero addolorato, nel vedere che gli uomini non riconoscono più i propri fratelli, che l’essere umano continua a non sapere quello che sta facendo”.
I narcos lo minacciano ripetutamente di morte e perfino i politici locali arrivano a dirgli “scegli come vuoi morire” mentre circondano la sua casa, armati di bastoni e gasolio, pronti a dar fuoco a lui e ai suoi ospiti . “Sono accompagnato da Gesù e non mi fermerò mai. Fermatemi con un colpo in testa, se volete” dice con tono deciso agli ambasciatori dell’ultima minaccia. Pochi mesi fa. Quando i narcos del famigerato cartello “Los Z” gli si avvicinarono mescolati tra i migranti e, simulando con la mano di sparargli alla tempia, gli dissero “smetti di parlare di migranti e di sequestri o ti facciamo fuori”.
Nell’aprile 2012 Amnesty International lancia un’azione urgente per proteggerlo e poco dopo un movimento popolare lo candida al nobel per la pace. Solo allora lo Stato gli affida due uomini di scorta, e dispone telecamere su ogni ingresso dell’albergo.
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Padre Solalinde è un prete scomodo perché, “povero tra i poveri”, non ha mai avuto timore di gridare alle ingiustizie, di chiamare per nome le cose e i nemici. Non guarda mai al cielo, perché “Gesù è in ognuno degli uomini che incontra sul suo cammino”. E con uno spregiudicato coraggio morale lotta ogni giorno.
“I miei genitori erano disperati, perché sono sempre stato la pecora nera della famiglia”. Terzo di cinque figli, con un padre maestro elementare e una madre casalinga, ha avuto un’infanzia povera, di quelle dove un bicchiere di latte è regalo prezioso e un pezzo di carne una festa rara. Cresciuto nella periferia della città di Texcoco, tra strade di fango e fumo di carbone, il piccolo Solalinde i guai sembrava cercarseli, schierandosi sempre dalla parte dei più deboli, in una terra dove vince sempre il più forte. “Ogni tanto si menavano le mani, anche se mai ho conosciuto tanta violenza come oggi. A volte si davano, e a volte si prendevano”.
I suoi genitori lo iscrissero in un collegio cattolico, con la vana speranza di ammorbidire il suo carattere inquieto e rivoltoso. “Ricordo il giorno in cui Dio mi mise davanti al primo bivio: era il settembre del 1965, avevo 19 anni, mi ero appena iscritto ad architettura e da tre anni ero fidanzato con Yolanda.”. Quel giorno Alejandro, dopo aver accompagnato a casa la sua fidanzata, sentì la chiamata di Dio. Profonda e fortissima. Provò a tacerla, provò a cercare delle risposte. Ma l’unica cosa che riuscì a fare, fu seguire un destino. Diede il suo ultimo bacio a Yolanda e la mattina del 2 gennaio entrò in seminario. Studiò con i Padri Carmelitani, imparò le regole della terra e il libro della vita. Si genuflesse e pianse alla volontà del Signore, ma non riuscì mai a piegarsi alle volontà di chi indossa crocefissi d’oro, anelli sponsali e mantelle paonazze. “Non trovavo giusto celebrare messa per ordinazione o per prezzo. Chiedevo alla chiesa di tornare vicina alla gente. Dio mi aveva messo nuovamente davanti a un bivio.”
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Padre Solalinde è un missionario, che cammina ogni giorno sulle vie del sacrificio e della miseria umana. Pieno di amore, di tenerezza e di speranza, non si chiede se chi ha davanti sia un giusto o un delinquente, per lui è semplicemente un uomo. Con questo spirito accoglie chiunque sotto il suo tetto, giorno e notte. Instancabile, corre lungo la ferrovia quando il fischio del treno, che i migranti chiamano la bestia, annuncia il suo arrivo in città. Apre le braccia alle centinaia di esseri umani appesi a quei vagoni come alla vita, gli offre un pasto caldo, un riparo sicuro dove riposare, lontano dalla disperata violenza di quel viaggio. Tutto, e solo, nel nome del Signore.
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Una notte, quando l’ultimo dei migranti ospiti si è addormentato nella sua branda, e anche il bebè partorito da Sonia ha smesso di piangere, Padre Solalinde mi invita nella sua stanza. Sotto la luce al neon, le pareti coperte di libri e un’amaca appesa al muro. Mi offre un the, e tra il frinire dei grilli, mi confida un sogno. “Nella vita tutti ci troviamo prima o poi davanti a un bivio. Se facciamo la scelta sbagliata, il mondo ci ripudia, ci tratta come indegni. Io vorrei raccogliere quelle persone, dargli una terra e dimostrare al mondo che, come nel Vangelo, in quelle persone possiamo seminare un granello di senape. Ne crescerà la pianta più alta e rigogliosa.” Con un gesto calmo Padre Solalinde si sfila la croce che sempre porta al collo, me la mostra tra le sue mani giunte. “E’ di ulivo, e ha le braccia ricurve, come un abbraccio. Qui sta tutta la mia missione, il mio semplice compromesso con la vita”.
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