Senza soldi e senza documenti, ma finalmente libero. Sotto la pioggia di settembre Gianfranco apriva le braccia al cielo, come a volerla prendere tutta. Gridava e saltava, felice tra le pozzanghere delle vie di Bologna. E mentre i passanti lo prendevano per matto, lui pensava che erano nove anni che non sentiva la pioggia scivolare sulla pelle. “In carcere quando piove l’ora d’aria non si fa, e quello per me era il battesimo di una nuova vita” racconta oggi, camminando per le stesse vie, col naso rivolto sempre un po’ all’insù. Ma la liberazione non è la libertà, perché si esce dal carcere ma non dalla condanna.

Gianfranco quando era bambino.

Lo sa bene Gianfranco, cresciuto con quei ragazzi di vita che racconta Pasolini, e che dalle carceri di mezza Italia è entrato e uscito per cinquant’anni, senza riuscire mai ad allontanarsi dal destino miserabile che gli era toccato. La sua storia è comune a ogni guappo di periferia, con dei genitori che amano a modo loro, i soldi che non bastano per mettere insieme il pranzo con la cena, il collegio con i preti e la voglia di riscatto che brucia nell’adolescenza fino a pagare un prezzo alto per il solo dovere del vivere.

Bello e dannato, Gianfranco scopre l’illegalità una sera d’estate nei suoi quindici anni, quando insieme ai compagni del quartiere Capacotta, nei sobborghi romani, si intrufola nella villa dei ricchi del paese. “Abbiamo rimediato qualche gioiello, un paio di schioppettate al sale, e dopo la fuga un sacco di risate” racconta, spiegando che dopo quella bravata si erano sentiti una squadra e subito hanno alzato la posta in gioco. Correndo sulle loro vespa tra il frinir dei grilli hanno scippato le prostitute della Prenestina, e sono poi scappati per vicoli e campi dai papponi che li volevano pestare. “Dei soldi di quelle donne non me ne importava nulla, ma l’euforia del rischio mi piaceva, molto” racconta aggiustandosi sul capo il cappellino di paglia, che toglie solo quando incontra una bella ragazza. “Avevo scoperto l’adrenalina. Non sapevo a cosa servisse, ma mi procurò solo un mare di guai”.

In quei reati cresciuti nella noia Gianfranco si scoprì scaltro e capace, e nelle strade brevi dell’illegalità trovò il suo mestiere. Rapine per lo più, ma nella sua vita al limite non ha disdegnato i furti o qualche traffico di droga. Non era felice di quelle scelte, ma non poteva farne a meno e le pene brevi che la giustizia gli infliggeva per i suoi errori diventavano un incentivo a continuare. Anche quando decise di andarsene dalle amicizie balorde e dall’asfissia delle sue periferie per cercare una vita migliore, l’auto che aveva rubato lo lasciò a piedi a soli trenta chilometri dalla Capitale.

Gianfranco quando aveva venticinque anni.

“Il destino sembrava non lasciarmi alternativa” spiega. “Tutto mi ha sempre riportato nel tunnel, dove l’unica luce fu Oriana”. Si sono conosciuti in discoteca, in una di quelle sere il cui unico scopo è quello di rimorchiare. “Ciao, ti va di ballare?” chiese Gianfranco, col suo fare un po’ strafottente, avvicinandosi a una ragazza seduta al bar. “No stasera non è aria” rispose lei abbassando lo sguardo sul drink. “Se non ti andava di ballare dovevi stare a casa” disse lui prendendola per mano e trascinandola verso la pista da ballo. Da allora non si sono mai lasciati e lei non è mancata a un solo colloquio in carcere, neppure quando la giustizia aveva confinato il suo Gianfranco a Melfi. Dal loro amore, tra una rapina e una prigione, nacque Alba. “Del suo primo anno di vita ho goduto ogni istante, poi il giorno del suo compleanno sono arrivati i carabinieri a prendermi” racconta Gianfranco ancora con occhi umidi. Nei tre anni di carcere che seguirono a Rebibbia, Gianfranco attese solo l’ora settimanale dei colloqui, che passava a giocare con la figlia facendo arrampicare le dita sul vetro che li separava. Erano le formichine della libertà, che avevano un lungo cammino da fare, ma sarebbero tornate a toccarsi. “Tornare a casa fu per me il momento più bello della vita. Il sorriso di mia figlia vale più di ogni parola e promisi che non avrei più commesso nulla di sbagliato. Ma il puzzo della sciagura, quando nasci tra i dannati, non si lava via”. La sua vita da uomo libero infatti durò appena otto giorni, finché il suo avvocato non lo chiamò per dirgli che un nuovo mandato di arresto era stato emesso nei suoi confronti per reati passati. Non ce la poteva fare Gianfranco. Non voleva più tornare dentro a contare i minuti che lo separavano dai colloqui. Non voleva più convivere in nove metri quadri con altre tre persone e defecare in un buco affianco al letto. Gianfranco avrebbe voluto chiudere col passato, ma ancora una volta non gli restava scelta. Chiamò la moglie Oriana nel supermercato dove lavorava e la pregò di tornare a casa. Poi chiese a un amico di venire a prenderlo subito. Vestì la figlia Alba e scese sotto casa. “Baciai mia moglie e mia figlia tra le lacrime. E col cuore che mi sanguinava iniziai la mia latitanza” spiega Gianfranco che non si è mai arreso. Ha passato quattro anni in giro per l’Italia, mettendo a segno rapine a banche e gioiellerie, braccato dalla polizia e dal senso di colpa. Con l’aiuto di vecchi amici organizzava gli incontri con Oriana e Alba in rifugi di montagna, e se non si sentiva sicuro a uscire allo scoperto, si accontentava di osservarle da lontano, nascosto in qualche granaio. “Sono stati quattro anni infernali, di maschere, paure e sotterfugi. Avevo smesso anche di cercare mia figlia, diffidente e vigile come un animale ferito” racconta, ricordando quasi con sollievo il momento nel quale lo arrestarono dopo una rapina in una banca di Cervia, e li la giustizia gli presentò il conto. Diciannove anni per le trenta rapine delle quali era imputato. “Nella sala matricole del carcere, mentre per l’ennesima volta stampavo le mie impronte sugli schedari giudiziari, mi dissi che avevo solo due scelte: il suicidio o una nuova vita. Pensai a mia figlia e scelsi la seconda strada” racconta Gianfranco che sin dal primo giorno si dedicò a qualsiasi attività potesse strappare del tempo all’eternità che lo attendeva. Ha imparato la falegnameria, la cucina, il teatro e ha affogato ogni angoscia nei libri. “Con sconti di pena e buona condotta sono uscito dopo nove anni di galera, e cinquecento libri letti” racconta con orgoglio, “ma dopo tanto carcere, buttato in una strada assolata con i tuoi vestiti in due sacchi della spazzatura, senza un soldo e senza documenti, ti sentii chiuso fuori. Io, che volevo cambiare vita, non sapevo da che parte iniziare”. Nelle sue prime ore di libertà Gianfranco andò a rifugiarsi in una biblioteca del centro di Bologna, perché i libri erano diventati i suoi compagni di vita. Dai vecchi amici come dalle strade della sua Roma, era meglio starsene per un po’ lontani. E alla vergogna che soffocava la voglia di chiamare la figlia era meglio non pensarci.

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Solo, nella prima pioggia da uomo libero aveva lavato ogni angoscia e nella notte passata sotto le stelle aveva trovato la genesi di una vita nuova, “perchè se restavo solo, nessuno si sarebbe accorto di me” dice. Seduto su un marciapiede di via Rizzoli, alle prime luci del giorno, aspettò l’unica persona della quale si fidasse, il suo avvocato. “Chiara, ho bisogno del suo aiuto” le disse, “il vuoto della libertà è troppo grande per farcela da soli. Dobbiamo aiutare tutti quelli che sono nella mia condizione”. Da quel pensiero Gianfranco e Chiara hanno fondato l’associazione Chiusi Fuori, che ogni giorno si impegna per favorire l’integrazione e l’accesso al mondo del lavoro di tutti coloro che sono fuoriusciti dal regime carcerario. “Quando esci non hai una residenza, non hai un documento che non porti il timbro del carcere, non hai un lavoro e molto spesso la sola strada che conosci è quella del tuo passato” spiega Gianfranco che oggi lavora a Bologna come cuoco nelle mense ospedaliere, e appena concluso il turno corre sulla sua bicicletta nella sede dell’associazione per tendere la mano a quelli che come lui hanno pagato il caro prezzo dell’illegalità, e vorrebbero rinascere. Orgoglioso della dignità di quel suo nuovo cammino, una sera, nell’intimità del suo monolocale di periferia, Gianfranco ha trovato anche il coraggio di richiamare sua figlia. “La vita è così” le ha detto, “non c’è niente di facile, ma nulla è impossibile”.