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L’amore, un prete e una suora

“Avanti sorella, faccia presto” gridava Padre Oscar Bosisio con quanto fiato avesse in gola. Suor Fanny, immersa fino alle ginocchia nel fango, guadava le acque torbide del fiume Mansoa, nel cuore della Guinea Bissau, sorretta dalle mani di qualche donna del villaggio. Nel cielo terso dei tropici e sotto i fischi delle bombe, sventolava alta la bandiera bianca di Oscar, che si arrendeva alla guerra e al destino.

Giunta alla riva, nell’abbraccio fraterno di quel prete, suor Fanny si tolse il velo celeste del noviziato e tra le vie disastrate della guerra, disse: “Padre, non capisco perché strillasse tanto, ma si ricordi che d’ora in avanti io sono l’unico medico della città e lei l’unico prete. Credo che dovremmo aiutarci”.

Fanny Rankin aveva studiato medicina a Cuba, il suo paese natale. Era la studente migliore della facoltà e nel nome di quella Revolucion che portava nel cuore e che cantava per le vie di L’Havana a passo militare, aveva partecipato in gioventù a molte missioni governative, qua e la nella metà di mondo oltre il muro di Berlino. “La solidarietà marxista-leninista dipingeva un mondo perfetto, ma ciò che quel dogma generava era miseria, proibizione, incapacità di trovare risposte alle domande fondamentali della vita. Chi sono e dove sto andando”. Con queste parole oggi Fanny racconta l’oppressione di quei pensieri ai quali non trovava risposte, fino a quando la sua Revolucion non la portò per la prima volta in Guinea Bissau. “Mi avevano mandato per curare una popolazione ridotta alla fame, ma non avevo né medicine né cibo” racconta. Davanti a quella frustrazione, in una sera di lacrime, una suora clarissa le si avvicinò: “non resta che la speranza della preghiera” le aveva detto. Fanny, che dell’ateismo ne aveva fatto un credo, si ritrovò a sollevare le mani al cielo e a invocare l’aiuto di Dio. Nelle parole di quella suora aveva trovato il conforto della carità e un’amore che per tutta la vita aveva cercato. “Nella fede trovai l’equilibrio tra tutte le cose. La ragione del mio essere al mondo e l’impegno nell’aiutare gli altri” racconta. Mentre i compagni cubani salivano su un aereo per tornare in patria, Fanny scappò dal comunismo e si rifugiò tra le mura del convento di Bissau e i libri della Facoltà di Teologia di Roma.

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“Ogni fede diventa una gabbia nelle mani imperfette dell’uomo” racconta Fanny, che nell’agosto del 1998, quando scoppiò la guerra in Guinea Bissau, scappò anche dal suo Dio che la voleva chiusa in un convento a pregare, per tornare a sporcarsi le mani d’amore. Mentre tutti fuggivano dalla ferocia africana della guerra civile, Fanny guadava il fiume controcorrente per accogliere la richiesta di aiuto di quel Padre Missionario a cui ora non importava più quale divisa si vestisse, davanti alla morte non ci sono ideologie.

Quando Padre Oscar portò Fanny nella sua parrocchia, nel centro della capitale, ad aspettarli c’erano 13.000 persone, malati, feriti e affamati. “Qui non esiste più niente. Adesso che lei è arrivata, questa chiesa diventerà l’ospedale” le aveva detto lui. Nella biblioteca sistemarono i vecchi, la sagrestia divenne la sala parto, e la chiesa si trasformò nel reparto pediatrico. In un’ammirazione reciproca che cresceva ogni giorno, Fanny e Padre Oscar assistevano tutti, compresi i soldati del Presidente e i miliziani ribelli. Ma le medicine scarseggiavano mentre le prime epidemie iniziavano a diffondersi tra i feriti. “Una sola fiala di Valium e tre bambini con le convulsioni. Dovevo decidere ogni giorno chi viveva e chi doveva morire” racconta Fanny con il dolore ancora negli occhi. Alle mani giunte di una statua della Madonna venivano appese le flebo, mentre sotto una croce spezzata dall’artiglieria Padre Oscar tendeva le braccia ai centinaia di bambini abbandonati e malnutriti. Alberi e arbusti intorno alla parrocchia si spogliarono di ogni foglia, strappate dalla fame di migliaia di persone che le facevano bollire pur di avere qualcosa da mettere sotto i denti.

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“Eppure quella guerra è stata una maternità per la mia vita” spiega oggi Fanny. Non le servivano più le dottrine di Marx come le parole di Cristo; sotto le bombe che non fanno distinzioni, chiunque fu al suo fianco divenne per lei un fratello. E finalmente Fanny si scoprì libera di amare.

Una sera di novembre, nel silenzio della città affogata in una tregua, Fanny e Padre Oscar si ritrovarono seduti ai piedi del cristo mutilato, sul sagrato della chiesa. I loro corpi si sfioravano e i loro sguardi ormai non potevano più fuggire i sentimenti. “In guerra non c’è tempo per pensare all’amore. Ma ora, cosa facciamo?” aveva detto Fanny. “Sono un prete”, aveva risposto lui abbassando lo sguardo, come chi fugge la propria immagine riflessa in una stanza di specchi. “Domani tornerò a Roma” aveva poi aggiunto.

Dopo la partenza di Oscar, ci furono quasi sei mesi di silenzio, riempiti dalle centinaia di pazienti che ogni giorno Fanny visitava nella parrocchia e nei villaggi circostanti. La pace dei soldati sembrava reggere, ma nel cuore di Oscar era scoppiata una guerra inattesa. Lui che nella sua missione di fede, intrapresa all’età di tredici anni, aveva affrontato ogni disperazione umana nell’Africa nera, ora si sentiva impotente davanti alla forza delle emozioni e alle domande che la ragione gli imponeva. “Il Signore mi aveva messo davanti l’amore, e la chiesa mi chiedeva di negarlo, come nelle mie omelie dovevo negare l’uso del profilattico, quando tra le mie braccia morivano centinaia di donne e bambini malati di AIDS”. Chiedendo perdono, Oscar lasciò la croce che portava al collo sulla scrivania del Pontificio Istituto Missioni Estere di Roma, e con l’amore di Cristo nel cuore, tornò da Fanny nella sua Bissau.

“Ci amiamo incondizionatamente, compensando ogni giorno i vuoti dell’altro, finalmente senza sciocchi tabù” ammette Fanny mentre la sua mano cerca le carezze di Oscar.

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Insieme, con l’aiuto dell’ospedale Sacco di Milano e l’eredità di un amico prete, costruirono il primo centro per malati di AIDS del Paese che ancora oggi cura ottomila pazienti all’anno, tra donne e bambini. Mano nella mano, fino nelle remote regioni del Sonaco e della Bula , Fanny e Oscar hanno portato il loro aiuto vivendo la pienezza del loro amore, che nel gennaio del 2007 gli diede un figlio che chiamarono Alessandro. Con quell’angelo biondo dagli occhi celesti infagottato sulla schiena, come ogni donna africana, Fanny continuò la sua missione fino alla notte in cui il Paese cadde sotto la scure di un nuovo conflitto. Senza alcun bagaglio e col dolore nel cuore, Fanny e Oscar lasciarono la loro gente, per portare in salvo il piccolo Alessandro che aveva appena compiuto due anni. Lo stringeva forte a se Fanny, cantando una nenia in creolo, mentre la loro auto zigzagava tra le bombe e i posti di blocco. Raggiunsero il Senegal, e da lì l’Italia.

“Avremmo atteso di capire gli sviluppi militari, ci saremmo organizzati e saremmo tornati, perché quella gente aveva bisogno di noi, e noi di loro”.

Ma il destino voleva il loro amore sul fronte di un’altra guerra, che avrebbe stravolto ogni piano, per sempre. L’angoscia vissuta da Alessandro nella fuga, aveva scatenato in lui un forte stato di malessere. Nel calore della loro casa in Italia, lui stava seduto in un angolo, il capo rivolto al pavimento, incapace di pronunciare qualsiasi parola. Autismo fu la diagnosi dei medici. “Sapevo bene cosa significasse” dice Fanny, “e fu più doloroso della guerra” aggiunge. La ricerca delle cure migliori per il loro bambino, li ha portati fino a Miami, in una casetta dell’impeccabile provincia americana, col prato verde, le staccionate dipinte di bianco e una piscina nel backyard. Qui Fanny e Oscar vivono le loro giornate, scandite dagli orari delle terapie e dalla gioia di ogni piccola conquista di Alessandro. Ma la sera, appena lui si addormenta, loro si siedono davanti a una webcam e tenendosi ancora per mano, coordinano i medici nei loro centri sanitari sparsi per tutta la Guinea Bissau. “Alessandro oggi è la nostra missione, la nostra Africa di ogni giorno” spiega Fanny, “ma ogni suo sorriso è per me una rinascita” aggiunge, col tono di una madre che non ha paura.

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Chele*, il più grande malaffare del sud.

Ho incontrato Susana una sera d’autunno, alla confiteria Costa Rio, al 673 dell’avenida San Martin.

E’ una donna alta e corpulenta. Ha i capelli tinti castano-arancio. I lineamenti appena indigeni. Difficile darle un’età a prima vista. Il suo corpo ingombrante zoppica, e un bastone di legno scuro accompagna i suoi passi mentre mi viene incontro.

Mi avevano parlato di lei in città, della sua storia, e avevo impiegato molto tempo e molte telefonate per convincerla a incontrarmi.

Lei ha scelto il luogo del nostro appuntamento. Io le ho promesso che avrei raccontato questa confessione, ma lo avrei fatto lontano da li.

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“Solo una volta ho indossato un vestito da sposa. E fu per uno spogliarello”. Così dice Susana, senza che le sue parole tradiscano rimorso. Senza un’ombra di rancore. Mentre si accomoda a un tavolo della confiteria, quello vicino alla vetrina che da sulla strada.

E’ nata nella periferia di Tucuman nel 1954. Susana non è il suo vero nome. Maria Jimena, si chiamava. Però quel nome durò poco tempo, cosi come la sua vera madre. Maria Jimena fu scambiata per un televisore quando ancora non aveva un anno. Da quel momento, per il mondo, lei divenne Maria Flor. Questo era il nome che la nuova madre sognava per sua figlia ma, dato che di figli lei non poteva averne, decise di comprarla.

Non era la prima volta che, su nel nord, un bambino venisse ceduto in cambio di pochi spiccioli, o di un oggetto. Lo si fa per strapparlo alla miseria e dargli la possibilità di una vita migliore. Lo si regala talvolta, con un carico di dolore che solo la speranza e la sopravvivenza possono alleggerire.

Il 7 giugno del 1955 Maria Flor viene accolta dalle braccia della nuova madre in una coperta di cotone a fiori. La stessa stoffa che per anni adornò le finestre della sua camera, e che la donna aveva comprato al mercato di San Telmo, giù nella capitale.

Viaggiare a Buenos Aires era sufficiente da quelle parti per essere considerate delle persone agiate.

La mamma di Maria Jimena aveva osservato a lungo quella donna, prima di consegnarle la sua piccola. Aveva ben notato che vestiva abiti alla moda, sapeva leggere e scrivere, conosceva le persone che contavano e che, in fondo, un lavoro ce l’aveva. Secondario era ai suoi occhi il fatto che quella donna, per mestiere, facesse la puttana.

Nonostante la vita avesse riservato a Maria Flor un ambiente miserabile, la Susana di oggi ricorda quegli anni e quella matrigna, che mai chiama per nome, con estrema tenerezza e gratitudine. Ricorda gli anni giovani della sua vita come si ricordano tutte le infanzie. Con il sorriso della nostalgia stampato sulle labbra.

“Mi hanno insegnato a lottare e ad amare ogni giorno” dice.

E lo fa chiudendo la mano in un pugno nervoso e deciso, irrigidendo il braccio, come a dimostrare la sua forza.

Susana si accende una sigaretta, di quelle sottili. Sembra ridicola tra le sue grosse dita. Ma lo fa con un’ eleganza fuori dal comune , di chi nei gesti ha conservato tutto il garbo della seduzione.

“Ero bellissima da giovane, snella e bionda, prosperosa, la princesa mi chiamavano. L’età e le malattie mi hanno un po’ rovinato il corpo, ma non lo spirito”. E scoppia in una profonda risata, strozzata dai colpi di tosse, che di tanto in tanto le fanno drizzare la schiena.

La matrigna di Maria Flor aveva un compagno. Si chiamava Ruben e stava scontando una pena in carcere per rapina. Sin dal suo primo giorno di prigione, per tutti i martedì che Dio ha mandato in terra, la sua donna andò a trovarlo portandogli un piatto di humitas, ben raccolte nelle foglie tostate di mais, che preparava con l’aiuto di Flor la sera anteriore.

Sin dalle prime ore della mattina, le due si mettevano in fila all’ombra dei cedri insieme a decine di altre donne, aspettando di essere chiamate per il colloquio settimanale.

Un torrido martedì di novembre del 1970, il destino volle che Maria Flor andasse sola a consegnare il cestino di humitas a Ruben, perché la matrigna non si sentiva bene.

Quando dalla porta del carcere chiamarono il suo nome, Maria Flor lasciò la fila dell’attesa e attraversò il grande cortile di cemento e pietre intorno al quale si incrociano i bracci penitenziari zeppi di celle.

Camminava veloce e con lo sguardo rivolto verso il basso, per ripararsi dal sole e dal silenzio angosciante di quello spazio.

“Bionda!”, all’improviso, gridarono. Quella parola rimbalzò nell’aria bollente, resa ancor più soffocante dalla solitudine di Flor.

“Ehi, bionda!? A te!”. Maria Flor si guardò intorno. E in alto, verso il cielo. Solo due braccia, uscivano oltre le inferriate dall’ombra della finestra di una cella. “Bionda vienimi a trovare giovedì. Chiedi di Ruben Diaz. All’ora dei colloqui!”

“Maledetto quel giorno” dice Susana.

Si ferma un attimo, mentre incrocia lo sguardo di una coppia di giovani che passano tenendosi per mano sulla strada, al di la del vetro.

I 16 anni che bruciavano nel suo corpo, il fascino del mistero e il torbido della miseria. La voglia di essere grande e l’assenza di un padre.

Maria Flor quel giovedì andò all’appuntamento e consegnò il cuore e anima a quell’uomo, al di là del tavolo dei colloqui.

Per quanto ne sapesse poteva essere il peggior assassino della terra. Ma per ciò che i suoi occhi vedevano, e per quel nodo che le stringeva in petto, era l’uomo più bello del mondo.

Ruben uscì di galera due mesi dopo. Aveva 35 anni allora. E trovò Maria Flor ad aspettarlo.

Che grande fortuna Maria Flor. Un uomo che si prendesse cura di te. Non un ragazzo della strada, uno qualunque. Ma un uomo vero, maturo. Un duro.

Ruben aveva i capelli bianchi. Per questo tutti lo chiamavano, sempre con rispetto, “cabeza de ajo” (testa d’aglio).

Dimostrava molto meno della sua età. Era un tipo elegante. Sempre con la giacca e la cravatta, su una camicia ben stirata. Ostico all’apparenza. Eppure per Maria Flor era l’essere più dolce che avesse mai incontrato. Ogni parola di Ruben era per lei un saggio ordine, da seguire fino alla fine.

Susana estrae da una tasca interna alla sua giacca di lanina nera una piccola fotografia, dai colori sbiaditi. Lo fa con timore. Le sue mani accarezzano la foto come per rimuovere la polvere del tempo, poi me la porge come si porge una cosa preziosa.

La porta sempre con se, la conserva all’altezza del petto, vicino al cuore.

“Questo è Ruben” dice, indicando l’uomo ritratto.

Lui, in primo piano, guarda dritto in macchina con un accenno di sorriso. Indossa un pantalone beige a zampa d’elefante e una camicia verde pisello slacciata per metà, i becchi del colletto lunghissimi. Una sigaretta in mano. Una cintura con una grande fibbia d’argento. Alle sue spalle Susana, di tre quarti, distratta, un po’ sfocata. Con un vestito di cotone bianco, i capelli lunghi, e i piedi nudi sulla terra. Sul fondo le cascate dell’Iguazù e una piccola capanna di legno col tetto celeste. Sono all’angolo di una strada sterrata che si perde fuori dall’inquadratura, in una calda giornata d’estate, con le ombre corte, e nere.

“Qui eravamo in vacanza a Iguazù. Ci andammo appena lasciata Tucuman. La nostra prima vacanza. E l’unica. Mi diceva che un giorno saremmo stati così ricchi che avremmo vissuto in vacanza. Io stupida, ci credevo. Ero giovane e innamorata. Le parole di Ruben mi potevano portare ovunque”.

E anche se, una dopo l’altra, quelle parole hanno portato con se dolore e sacrificio, lo sguardo di Susana ancora vacilla, e la parola trema, davanti a quella fotografia che li ritrae.

Ruben era finito a Tucuman per un malaffare. Una bisca andata male, che lo ha portato in prigione. E aveva giurato a se stesso che se ne sarebbe andato il prima possibile. Voleva tornare nella sua Capitale. Voleva tornare ad essere il timbero (lunfardo, significa giocatore) della notte porteña, quello che tutti i giocatori d’azzardo porteñi chiamavano “cabeza de ajo”.

Maria Flor si lascia convincere in fretta. Per i suoi 16 anni senza radici, Ruben aveva progettato un futuro da ballerina nella Capitale.

I giorni della vacanza d’amore sfuggono veloci e poche settimane dopo la scarcerazione, Ruben e Flor salgono sul bus che li avrebbe portati fino all’Obelisco de la Nacion. Il cuore di Buenos Aires.

Quante fantasie, quanti abbracci, quanti sogni in quel viaggio. Quell’autubus scalcagnato, che sobbalzava cigolante ad ogni minima buca, era per Maria Flor la carrozza più bella. Il mondo che neppure osava sognare era tutto li. Nell’avventura, nel viaggio, nell’amore per il suo principe che le sedeva affianco.

Susana non la prese male quando Ruben le disse che per la nuova vita, lei avrebbe dovuto cambiare nome. Serviva un nome più consono, più all’altezza dell’arte, più sognatore. Proprio così disse. Più sognatore.

“Susana” gli sembrava perfetto. Suona bene, disse. E fu così, attraversando di notte i campi del Chaco, che Ruben fece nascere Susana e fece morire per sempre Maria Flor. Senza che lei neppure se ne accorgesse, per la seconda volta, la sua vita veniva plasmata dal piacere di altri. Nello stesso istante, tacitamente, Ruben aveva vestito l’abito del caffiolo (parola lunfarda per indicare colui che vive della prostituzione della compagna).

Il primo locale dove Susana si esibì si chiamava Exotica. Si trovava nel pieno centro di Buenos Aires, in calle Corrientes, a pochi passi dalla Casa Rosada e da Puerto Madero.

Ruben le aveva comprato un vestito anni 30, e si era fatto prestare una lunga collana di perle finte e lunghi guanti di raso viola.

Susana ancora ricorda l’emozione dei primi passi su quel palco. Non provava vergogna, solo timore di sbagliare. Di non piacere a Ruben. Mentalmente cercava di ricordare le prove fatte in camera, mentre Ruben steso sul letto, gambe accavallate, dispensava consigli. E lei ballava, si dimenava cercando di tingere di sensualità quel suo fare ancora acerbo, ma che tanto sarebbe piaciuto ai clienti. Poi Ruben le diceva brava, battendo in alto le mani, e stringendo tra le labbra la sigaretta accesa. E, sempre, finivano col fare l’amore.

Sul palco sarebbe stato identico, gli aveva detto Ruben. Io sarò li a guardarti. E quando finisci il tuo show decine di mani ti applaudiranno. Tu corri da me, in camerino, e faremo l’amore.

“ Che tonta” dice Susana, contraendo le labbra e battendosi un pugno sul capo. “Testona”.

Ruben però non si era sbagliato. Susana era bravissima, e il pubblico la adorava. Forse non aveva l’esperienza delle altre. Ma in quel corpo giovane e morbido che si muoveva sul palco, c’era qualcosa di sincero che eccitava gli spettatori.

“Era l’amore” dice Susana. “Ballavo per amore del mio uomo”. E i miei occhi lo gridavano forte. “Ogni passo, ogni sospiro, ogni sguardo, erano per lui”.

Non le importava di trascurare il suo corpo, di venderlo o mortificarlo. D’altronde quel corpo non si sapeva neppure più a che nome rispondesse. Se non a quello di Ruben.

Il pubblico la amava, le gridava “hermosa”, “divina”, le gettavano fiori e pesos sul palco. E lei imparò presto a ricambiare l’amore delle platee.

Le offerte di lavoro si moltiplicavano di giorno in giorno. Il locali notturni della Capitale facevano a gara per averla.

All’inizio della primavera del 1973 Ruben le organizza una vera tournee. Santa Fe, Rio Negro, Neuquen, Bahia Blanca, Cordoba. Poi in Uruguay e in Paraguay. Sempre tutto esaurito. E il camerino stracolmo di fiori, lettere di ammiratori e regali.

Ruben sapeva perfettamente come dominare e proteggere Susana. Tu sei una diva, le diceva. Non devi mai concederti a nessuno. Lasciali credere ciò che vogliono, non dire mai di no, ma non metterti mai nella condizione di dover dire di si.

“Una sera un gruppo di Colombiani si innamorarono di me. Cominciarono a seguirmi in tutte le serate. Mi facevano arrivare in camerino regali preziosi. Orologi, collane, gioielli. Mi volevano portare in tournee in Colombia. Arrivarono perfino a offrire a Ruben di comprarmi. Ma Ruben ha sempre rimandato indietro tutti i loro regali, fino all’ultimo. I Colombiani sono pericolosi, diceva. Sono narcotrafficanti senza scrupoli. Ruben era cosi preoccupato della loro insistenza che decise di interrompere gli spettacoli per qualche tempo, fino a che non sparirono dalla circolazione.”

Erano anni d’oro. Susana e Ruben vivevano in luoghi lussuosi. Avevano a disposizione auto e autisti, i migliori ristoranti offerti dagli ammiratori. Con due mesi di lavoro si comprarono un hotel nella capitale. In diciassette giorni un’auto. Erano ricchi.

“Ruben perse tutto al gioco. Ma per noi, tutto era un gioco e non ci preoccupavamo. La ruota della fortuna girava, alla grande”

Una vita che quella Maria Flor di Tucuman non avrebbe neppure potuto immaginare, tantomeno Maria Jimena. Servita, riverita, col suo uomo che le faceva la valigia ogni volta, e chi la riconosceva le facevano il baciamano.

Eppure a Susana iniziava ad andare stretta. Non per il lavoro che facesse, che tutto sommato le scivolava addosso senza troppo fastidio. Ma perché aveva voglia di fermarsi un po’, di tornare a sognare abbracciata al suo Ruben. Sentiva il bisogno di ritrovare l’amore. Aveva voglia di avere un figlio.

E pochi mesi dopo rimase incinta.

“Stavamo bene, non ci mancava nulla. Champagne ogni sera. Inviti, cene, feste, eravamo sempre ospiti di persone importanti, politici e generali. Però cominciava a mancarmi la mia vita. Avevo voglia di un po’ di tenerezza e di mettere delle radici.”

Susana partorì il 12 novembre del 1979, alle 4,30 del mattino, nell’ospedale Italiano di Buenos Aires. Al figlio, un maschietto di appena tre chili e cento grammi diedero il nome di Miguel.

“ricordo gli istanti in cui lo allattai per la prima volta. Avrei voluto che non finissero mai”.

Per Susana era ora di uscire dal giro, tanto più che la gravidanza le aveva lasciato un corpo materno che non andava più bene per il raffinato pubblico Bonarense. Ruben, che al principio rifiutava l’idea di essere padre, si sentì enormemente fiero di suo figlio sin dal primo giorno in cui lo vide, e lo sollevò in alto, al cielo.

Promise a Miguel e Susana una vita nuova.

Presto avrebbero lasciato Buenos Aires.

In quegli anni di tormentata politica in Argentina, il sud offriva un buon rifugio e delle buone occasioni, lontani dai giochi di potere e dal sangue della dittatura che macchiava le strade della capitale.

Nel marzo del 1980, Ruben e Susana, col piccolo Miguel in braccio, scendevano dal treno che li aveva portati a Rio Gallegos, nella punta più a sud del continente americano.

Ruben non aveva scelto a caso il posto dove stabilirsi.

Rio Gallegos nasceva come base militare, avamposto dell’isola di Terra del Fuoco e retrovia delle isole Malvinas. Si era poi sviluppata con le vicine miniere di carbone del Turbio. E in questi anni era terra di approdo di tutti i ricchi stranieri che qui venivano a investire nelle sconfinate terre patagoniche. Il mercato della lana tirava e ogni giorno sbarcavano uomini in doppio petto dall’Inghilterra, dalla Scozia, dalla Spagna. Pionieri carichi di denaro, vicini al regime, in cerca di avventura. Rio Gallegos era una città fatta di soli uomini, rudi come il vento e la solitudine di queste latitudini. Uomini che quando non facevano affari, affollavano le rumorose taverne della città. Si ubriacavano di aguardiente e non di rado, facevano fischiare i coltelli.

Qui Ruben ritrovò alcuni amici degli anni lontani. Con loro ricominciò a lavorare col gioco d’azzardo, le bische clandestine e anche qui divenne per tutti “cabeza de ajo”.

Ottenne presto la notorietà che cercava e i suoi tavoli verdi, sul retro del caffè “los petroleros”, erano sempre affollati. Ovviamente non disdegnava di giocare lui stesso se considerava i suoi avversari all’altezza, e questo faceva si che le economie familiari fossero altalenanti, tra serate di grandi vittorie e insonni nottate di debiti.

Susana però era contenta, continuava di tanto in tanto a fare qualche spettacolo nei nights di Rio Gallegos. Certo, al pubblico sofisticato delle notti Bonarensi si era sostituita una platea fatta per di rozzi militari, minatori e gauchos.

“Gli apprezzamenti non saranno stati eleganti, ma ero sempre la donna di Cabeza de Ajo. Questo era sufficiente per frenare gli entusiasmi ed essere rispettata. Mi chiamavano la Signora” ricorda Susana con orgoglio.

“In quegli anni arrivarono moltissime ragazze per fare la vita a Rio Gallegos. Era un posto protetto, lontano dagli affetti, pieno di lavoro e ben pagato. Solitamente andavano a vivere giù, vicino al porto. Dividevano l’affitto di una casa e ricevevano i clienti a qualsiasi ora. Chiamavano le amiche, le compaesane del nord e affittavano una casa vicina. Così a poco a poco si è formato un quartiere che ancora oggi si chiama “las casitas”. Negli anni gli affari sono aumentati tanto che la città ha deciso di isolarlo e ora è dietro la prima pompa di benzina YPF, quando arrivi in città dalla Ruta 3, li c’è una strada sterrata che porta all’antenna radio… da li inizi a intravedere le prime luci rosse…”.

A Rio Gallego le estati sono corte e sempre ventose. Gli inverni freddi e silenziosi. Ma è in questi mesi che Cabeza de Ajo concludeva le serate migliori. E proprio per la notte più lunga del 1982, il solstizio d’inverno, aveva organizzato la bisca del secolo, come la chiamava lui. La sua più grande scommessa personale. Voleva rimanesse nella storia e ci riuscì.

Parteciparono i più grandi proprietari terrieri di Patagonia. Vennero da Buenos Aires, dal Cile e dall’Uruguay. Professionisti del gioco, alti gradi dell’esercito, politici e uomini d’affari. Inglesi, Croati, Irlandesi, Spagnoli. Tutti intorno ai 100 tavoli di panno verde che Ruben aveva allestito al Club Britannico.

Il gioco sarebbe cominciato alle 16,30, al calar del sole, e sarebbe  terminato solo alle 9,30 della mattina seguente. L’ora dell’alba.

“Ruben non volle che lo seguissi quella notte. Io lo avevo sconsigliato, stavamo bene e non volevo che ci giocassimo il futuro in quel modo. Passai tutta la notte in piedi, alla finestra, con Miguel che dormiva sul divano al mio fianco. Alle 5 del pomeriggio seguente non era ancora tornato. Pensavo al peggio. Poi invece lo vedo arrivare, sulla sua Ford falcon celeste. Scende, cammina a passo spedito verso casa. Cercavo di interpretare il suo volto senza espressione che si illuminava di arancio sotto ogni lampione della strada. Non sapevo cosa pensare. Entra, e si chiude la porta alle spalle. Mi abbraccia e mi dice che avevamo incassato 32 milioni di pesos. Una fortuna.

Siamo ricchi, pensai. La fine di qualsiasi problema. La vita nuova che ci aveva promesso, era arrivata. Lo abbracciai, baciai, felice come nel risveglio da un incubo. Ma durò solo un istante. Fino a quando Ruben mi disse che quei soldi non li avremmo tenuti noi. Li avremmo dati a un giovane. Nestor Kirchner si chiama. Mi sembrava la cosa più assurda che avessi mai sentito. Potevamo dimenticarci del passato, della vita di notte, dei debiti. E invece avremmo regalato il nostro futuro a uno sconosciuto. Dovetti aggrapparmi con tutto l’amore che provavo per Ruben alla fiducia che non gli avevo mai fatto mancare.

E comunque, anche questa volta, non potevo scegliere.”

Nestor aveva 34 anni, era di Rio Gallego e si era sposato pochi anni prima con Cristina, una sua compagna di studi. Entrambi avevano un passato di impegno politico, carcere e lotta rivoluzionaria. Peronisti.

Ruben aveva sentito parlare di Nestor da molti amici importanti. Glielo avevano presentato quella notte, tra i tavoli da gioco, in un aria spessa di fumo di sigarette e secco odore di whisky. Nestor aveva un progetto politico ambizioso e aveva le carte per realizzarlo. Ma per percorrere la sua scalata aveva bisogno di appoggi. Di soldi.

In quella notte australe, mentre tutti si giocavano tutto, mentre il Paese si giocava le ultime vite del suo misero esercito sulle isole Malvinas, Ruben decise di credere a quell’uomo. Gli promise l’incasso della serata, a patto che quel Nestor gli avesse dato la gestione dei casinò della Provincia, e magari del Paese, appena avesse potuto farlo.

Su quella parola spesa, Nestor ricevette l’incasso della serata per finanziare la sua carriera politica.

Anche se la ricchezza di Susana non durò neppure il tempo di un sogno, la gloria di quella storica notte consacrò lei e il suo uomo per lungo tempo. In tutta la città “la Señora e Cabeza de Ajo” erano salutati e accolti come illustri ospiti. Susana passeggiava per le vie del centro a braccetto di Ruben con una gioia che non aveva mai provato prima. La sua vita era piena di fortune, pensava.

“Il mondo mi crollò addosso la notte del 29 novembre 1982, quando Ruben fu assassinato sulla porta di una bisca.

Stava giocando a dadi con una coppia di inglesi. Si accorse che i dadi erano truccati, col piombo. Lasciò il tavolo insultandoli. I due lo inseguirono fino in strada, gli spararono, lo pugnalarono e nessuno li vide più. Ruben morì dissanguato in un angolo buio di strada.”

Cabeza de Ajo non ebbe il tempo di vedere che non si era sbagliato scommettendo sui giovani Kirchner. Nestor di li a poco divenne prima intendente della città, poi governatore della provincia fino ad essere eletto nel 2003 Presidente della Nazione. E ad accompagnarlo ci fu sempre la moglie Cristina, che lo successe alla Presidenza del Paese dal 2007 sino ad oggi.

“Mi ritrovai sola, in cinta e presto scoprii anche di dover pagare un sacco di debiti di gioco che Ruben aveva lasciato. Dovevo ricominciare a lavorare. Ma conoscevo solo un mestiere, e da quello ricominciai.” Dice Susana con la fierezza di chi ha passato ogni cosa.

Susana vendette l’unico fazzoletto di terra che le rimaneva e comprò una casita in quel quartiere di bordelli vicino al porto. La chiamò Venus. Si procurò alcune ragazze appena arrivate in città che in cambio di vitto, alloggio e una buona percentuale sulle prestazioni, soddisfacevano i clienti.

Susana conosceva così bene il mestiere e quella vita, che fu da subito considerata da tutte la miglior dueña. Anche qui cominciarono a chiamarla come in città, la Señora. Aveva per tutte una parola di conforto e nello stesso tempo il carattere fermo per guidare le ragazze o intimorire gli avventori troppo molesti. Susana ha servito bicchieri di ginebra dietro il bancone del Venus per infinite notti, mentre il piccolo Miguel dormiva in compagnia di una anziana donna di fiducia. All’alba tornava a casa, e faceva finta di essersi appena svegliata. Accompagnava Miguel all’asilo, e poi a scuola. Quella doppia vita sarebbe rimasta un mistero, almeno nella formalità delle conversazioni tra una madre e un figlio.

“Piangevo, eccome. Ma lo facevo di nascosto, perché la Señora non aveva bisogno di nessuno. Non ero felice.”

Nelle quattro stanze del Venus sono arrivate a starci più di venti ragazze nei periodi più caldi di lavoro. Di li sono passate minorenni, o ragazze in cinta. Ma loro non le ha mai fatte prostituire. Le metteva con la pancia sotto il bancone del bar a servire da bere.

Al massimo qualche ballo se il juke box cantava la musica adatta.

“Insegnavo alle ragazze tutti i trucchi del mestiere. Prima si paga e poi si va in camera. Se quando la ragazza mi porta i soldi, bussa sul bancone, io sapevo che dovevo mandare a chiamarla prima che passasse il tempo pagato.

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Chi voleva avere a che fare con me doveva stare alle mie regole. E tutti mi rispettavano. Una notte due stranieri ubriachi hanno avuto da ridire perché pretendevano una ragazza che io non volevo dargli. Li ho sbattuti fuori. Loro hanno tirato fuori un coltello. Allora dalle altre casitas sono uscite tutte le ragazze e hanno iniziato a tirargli dei sassi. Sono scappati e non si sono più fatti vivi. Mi volevano bene le ragazze, e se qualcuna aveva un problema anche con altre padrone, veniva da me e io le aiutavo. Erano tutte povere disgraziate che per inseguire l’amore erano finite per venderlo. Venivano quasi tutte dal nord, dalle province povere, dalle periferie. Alcune portavano le sorelle, altre studentesse che venivano a farsi una stagione per pagarsi gli studi. Madri sole che lasciavano i figli ai nonni e mandavano soldi alla famiglia ogni settimana. Ragazze finite nei guai che dovevano scappare dal mondo. Tutte venivano a rifugiarsi qua al sud, dove il mondo finisce. Di tutto è passato, e di questo tutto sono stata sempre la Señora, la loro amica. Fino a qualche mese fa, quando Miguel ha trovato lavoro all’ufficio del Ministero della Salute. Il primo giorno che è tornato a casa mi ha detto: “ mamma, in ufficio tutti sanno che lavoro fai…” Non l’ho lasciato finire la frase e gli ho detto che ci avevo già pensato e che giusto quel giorno avevo venduto la casita. E così feci. Il pomeriggio stesso vendetti Venus agli attuali proprietari.”

Susana si mise così a cercare un nuovo lavoro che potesse mantenere i pochi piaceri che le giornate della desolata Rio Gallego potessero dargli. Il fumo, un bicchierino ogni tanto, e il bingo tutte le sere che il portafogli glielo permettesse.

Ironia della sorte, Susana ha trovato lavoro nella cucina del Vescovado. La diocesi di Rio Gallego è una delle più importanti di Patagonia e capita spesso che ci siano ospiti di passaggio. Preti di lontane parrocchie o visite pastorali. Durante il suo primo giorno di lavoro, insieme alla perpetua della cattedrale, avevano preparato un pranzo per la visita del parroco di Rio Grande. Ormai al termine, tocca a Susanna servire il dolce. Dispone i flan di riso in un vassoio e si prepara alla sua prima uscita nella mensa cardinalizia. Ma non appena si affaccia nella sala da pranzo le si gela il sangue. L’ospite di riguardo della giornata, il prete di Rio Grande, lei lo conosceva fin troppo bene. Era stato più volte suo cliente a Venus.

“Che vergogna” dice Susana ridendo sguaiatamente, tenendo una mano davanti alla bocca, quasi per pudore.

“mentre servivo il budino di riso a testa bassa cercando di non farmi riconoscere, avevo in mente le immagini di lui nelle notti di bagordi, e tutti i vizi che più gli piacevano”. E raccontando ciò, Susana con una gesto mima le prestazioni più gradite dal bizzarro cliente.

“Non mi vergogno di nulla” riprende Susana, ora con fare serio. “Ho vissuto meglio che potevo la vita che mi è stata data. Se potessi tornare indietro non rifarei molte cose, ma l’amore, l’inesperienza, l’incoscienza si pagano. E io credo di aver saldato con onore tutti i debiti. Miei e di Ruben. Oggi sono nonna, ho un nipotino di 4 anni, figlio di Miguel. Si chiama Ruben, come il nonno. E’ la gioia della mia vita. Mi fa sorridere quando viene in camera mia. Sul comodino ho una scatola scura e lucida, sulla quale c’è scritto Ruben “Cabeza de Ajo”. Sono le sue ceneri, ma il piccolo non lo può capire e tutte le volte vuole aprirla perché pensa sia un regalo per lui”.

 

*Chele: in Lunfardo significa latte infelice.

Il colore del vento

Tierra del Fuego, 12 ottobre 1996

“Non credo che ci rivedremo” e mentre il vento freddo mi faceva lacrimare gli occhi, Yeremy mi diede un bacio, vergognoso e profondo.

Osservavo il piccolo tender arancione, con la punta di metallo, allontanarsi dallo scafo nero della Micalvi. La bandiera della nave frustata dal vento. Il mortaio di poppa rivolto verso il cielo. Osservavo lei, così piccola in quel mare scuro e severo. Costretto, nel pensiero e nella vista, dalle lingue di ghiaccio che si tuffavano in mare. Protetto dai fiordi alti, pareti infernali e scure e pungenti che delimitavano un corridoio sicuro nelle acque di Beagle, osservavo l’isoletta sul fondo del canale. Il faro rosso e bianco sembrava volersi tuffare, così proteso dalla punta della scogliera. Sulla riva antistante, una grande croce di ferro si ergeva dritta, tra la spuma della risacca e le rocce bianche di guano. Mentre il gommone a motore solcava a fatica le onde brune cercando di conquistare la riva, la mia mano tesa al cielo con un gesto che sentivo infantile, salutava la giovane Yeremy. Avrei voluto gridarle che il mondo stava dalla parte opposta.

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Yeremy l’avevo conosciuta il giorno prima. Eravamo gli unici due civili a viaggiare sulla nave d’appoggio Micalvi della Forza Navale. Ad onore del vero con noi c’era anche un medico, che vestiva un pesante cappotto nero, un cappello di feltro scuro e una sciarpa di lana rossa fatta in casa. Non so se lavorasse per l’esercito o fosse un civile, ma la cosa ha poca rilevanza poiché il dottor Zibì, questo il suo nome, come raggiunse la coperta della nave si chiuse nella sua cabina e ne usciva solamente per riempire il suo thermos di acqua calda.

Yeremy Morales invece aveva 14 anni, figlia di un errore e di una madre che per donarle la vita aveva perso la sua. Era bella, solare, piena di energie e ottimismo. E non voleva andare a vivere con lo zio nella base militare di Puerto Harris.

Quando la nave salpò da Puerto Williams la sera prima, il molo era pieno di persone. Erano i parenti dei marinai che affidavano i loro figli al mare per 6 mesi d’inverno. Tra tutti c’era un signore magro che portava degli occhiali grandi e scuri, nonostante la luce fredda dell’imbrunire australe non avesse la forza di disegnare neppure le ombre delle cose.

Quell’uomo abbracciava una ragazza. Quell’uomo stava piangendo. Lei si abbandonava al suo abbraccio con una rassegnazione che tradiva la supplica di non lasciarla andare. Il rispetto per l’intimità di quel gesto mi spinse ad abbassare lo sguardo.

La Micalvi lasciò la baia di Puerto Williams con due fischi di sirena. Le persone sul molo si facevano sempre più piccole, a mano a mano che la nave prendeva il largo. In poco tempo quelle figure umane si persero nella penombra del villaggio tanto che non era più possibile distinguere neppure quell’uomo che, solo e immobile, era rimasto in piedi là dove il molo finisce. Il blu della notte inghiottì presto anche la scia della nostra nave che ora sembrava muoversi sospesa tra cielo e mare.

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La navigazione avveniva al buio poiché le acque della nostra rotta erano acque militari, contese da sempre tra Argentina e Cile. Il cielo era terso e ricco di stelle. Il vento si era placato. Se fuori era freddo e buio, sottocoperta viveva un mondo rumoroso, festoso e accogliente. Furono i giochi dei soldati e della giovane cuoca che mi fecero avvicinare a Yeremy, e fu il mal di mare che ci fece passare la notte più fuori che dentro. Coperti da un poncho militare ascoltavamo il ruggito delle onde che ci sorprendevano nell’oscurità ora a dritta e ora a poppa, in un caos primordiale e feroce. Era uno spettacolo irresistibile, un gioco pericoloso e allettante quello di riuscire ad arrivare nella parte più alta della nave senza farsi sorprendere da un’onda. Dall’alto del ponte, prigionieri di una libertà infinita, gridavamo al buio i nostri sogni. Giocavamo a dare un colore al vento e dopo una farneticante discussione concordammo che se il vento avesse un colore, questo sarebbe il rosso. Non esisteva più ghiaccio, sale, vertigine che non fosse parte insostituibile di quella notte. Fradici d’acqua salmastra, ebbri di giocosa follia,  desistemmo solo quando un marinaio ci venne a chiamare per avvisarci che entravamo nel Pacifico e che il mare si sarebbe fatto ancora più duro. Rientrammo, ma il caldo torrido della coperta, le mappe appese ai muri con le rotte e i continenti, i giovani soldati che giocavano al truco in cambusa, erano lontani dal nostro stato d’animo. Preferivamo il mondo immaginato, ritagliato tra le stelle. Preferivamo la ricerca della complicità dell’altro, vivevamo la felicità di quella grande menzogna che è il primo incontro sapendo che sarebbe stato anche l’unico. Così di tanto in tanto aprivamo il portellone che si affacciava sul nulla e stavamo li, tra il reale e l’immaginario. Ci afferravamo a vicenda, guardavamo quei muri d’acqua alti tre volte la nave che si issavano dritti a poppa e che dopo un istante crollavano con uno schianto tremendo che sembrava dovesse spaccare lo scafo, e trascinare tutto e tutti nella sua spumeggiante ritirata.

Poi Yeremy cominciò a vomitare e neppure io mi sentivo molto bene. Per alcune ore il mare fu tremendo, tanto che era impossibile persino stare stesi sulla branda della cabina senza esserne sbalzati fuori. Solo alle 11 della mattina seguente raggiungemmo delle acque più miti, tornando a navigare protetti da una miriade di isole e rocce emerse. Il sole splendeva alto nel cielo e il vento batteva implacabile la terra. Sibilava forte correndo tra sagole e stragli, si insinuava tra gli alberi bandiera e i pani degli indios, carezzava i muschi e si richiudeva in un vortice trascinando con se tutti i rumori. Poi solo il silenzio. Un istante, non di più. Ma abbastanza da desiderare che quel viaggio non finisse mai.

 

Yeremy dormì tutto il pomeriggio e quando il marinaio bussò alla porta della sua cabina per avvisarla che presto saremmo arrivati a Puerto Harris, dovette farlo con insistenza. Mentre la nave penetrava agile tra le gole di ghiaccio del canyon di Harris, io e Yeremy seguivamo dal ponte più alto l’avvicinarsi dell’isola, il saluto lontano dei soldati su al faro, le nubi correre nel cielo, i nostri nasi farsi rossi, gli occhi lacrimare. Consegnavamo le nostre poche parole all’eternità di un momento, respirando tutto ciò che avrebbe potuto essere, tutto ciò che abbiamo sognato e tutto ciò che non avremmo mai fatto. Io rimasi a guardare, mentre Yeremy si calava sul gommone già carico di provviste. Osservavo stupefatto la sua serenità e il destino che le camminava affianco. Mi dicevo che la felicità non dipende da quello che la vita ti dà. Mi chiedevo se anche un pezzetto di me sarebbe restato con lei su quella minuscola isola, mi domandavo se non sarebbe stato giusto tentare di dissuaderla. Che cosa avrebbe fatto in quell’avamposto del mondo sola con dei soldati? Respiravo profondamente.

Respiravo la vita e la fine. E quando i motori della nave tornarono a rompere le onde, lei si voltò, stava salendo il dirupo che portava al molo. Mi cercò, mi salutò gettandomi un bacio posato sulla mano e consegnato al vento come una preghiera.

La nave riprese il largo, mentre il giorno tramontava e il faro si accendeva. Costeggiando il versante di levante dell’isola, dove le rocce si facevano più rotonde e i caiquenes vanno a riposare, si potevano vedere le basse baracche della guarnigione, nere contro il sole che svaniva. Dai comignoli il fumo si perdeva rapido nel vento. D’oro si faceva il cielo. La distanza e il tempo avrebbe presto fatto scomparire quelle terre e le sue genti nel buio della notte. Già l’isola si faceva sempre più piccola all’orizzonte. Mi piaceva rimanere sul ponte, solo, sapere che mi avrebbero visto triste.

Poi balenò una luce vermiglia in cielo, la quale vinse qualunque mio sentimento.

Osservai l’isola ormai lontana. Scorsi solo la luce del faro che intermittente, affogava e riemergeva tra le onde del gelido mare.

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