Photographer, Journalist, Videomaker

Argentina

Tradimento: A un passo dalla felicità, a un passo dal peccato

[aesop_gallery id=”455″ revealfx=”off”]

Gliela hanno appesa al collo con un sottile nastro rosso, come a un cane. Altrimenti potrebbe ferirsi, le avevano detto. Da allora Lucia passeggia fischiettando nei lunghi corridoi e nei cortili, con una mano sempre sul petto, come a chi viene meno il respiro, per paura di perdere anche il ricordo.

Le si legge in volto il sollievo che prova nell’accarezzare con le dita quella medaglietta dorata. E’ la serenità di chi è convinto che il temporale passerà. Ma certo, non può immaginare chi le abbia portato quel ciondolo.

Ovviamente è stato Victor, giurerebbe la povera Lucia. Tra i suoi mille impegni, i suoi viaggi, non l’ha mai dimenticata. Sono passati 221 giorni da quel pomeriggio, dall’ennesima crisi. Tanti quanti i girasoli che ha disegnato sulla parete affianco al letto.

Sono 221 giorni che Lucia non fa l’amore, che non va al cinema, che non beve una birra, che non vede i suoi amici. Sono 221 giorni di tutto, o quasi. Stesa con lo sguardo sbattuto contro quel muro, Lucia passa ore a ricordare l’amore, le carezze, le mani di lui che le pettinavano i lunghi capelli.  A Victor non importa se Lucia sia o sembri matta, la ama ugualmente, anche con la sua follia, come ama la campagna e il vino. La scelta del ricovero era stata una decisione che avevano preso insieme. Avevano preparato una valigia di pochi vestiti, e qualche libro. Avevano dimenticato quel ciondolo, che raramente lei si toglieva di dosso. Ma i medici assicuravano che pochi giorni di terapia sarebbero stati sufficienti.

Ora Lucia è stanca di quella vita, e di stare sola. E’ stanca persino di essere matta, e gioca ad essere lucida. Poi si stanca anche di quello. Per finire a ingoiare altre pasticche amare, che la aiutano a sopportare la realtà, l’abbandono e gli eccetera. Aspetta solo il giorno che verrà, per disegnare un altro girasole nel suo campo umido e grigiastro, ai piedi del letto.

Strofina il suo ciondolo, e peccato – si dice – che Victor sia venuto mentre lei dormiva. Capita spesso ultimamente. Lo ha detto tante volte agli infermieri, di svegliarla quando viene il signor Victor, di darle meno farmaci, che non ha bisogno di dormire tanto, che già si sente meglio e pronta per uscire.

Fuori invece sono cambiate molte cose. Victor è morto da un mese, per un infarto. E ha lasciato a sua moglie Irene un vuoto duro e amaro. Con la scomparsa del marito Irene pensava di aver toccato il fondo della disperazione, poi si accorse che ancora non aveva perso tutto, che c’era altro da perdere, che il fondo in realtà non ha fondo.

All’apertura del testamento, il notaio aveva elencato i beni della successione. C’era una casa di troppo, della quale Irene non aveva mai sentito parlare in vita sua.

Ci mise quasi tre settimane a farsene una ragione e fu lo stesso notaio che la accompagnò al numero 82 di Calle Arenales, in un assolato sabato pomeriggio. Le suggerì di suonare il campanello della signora Utin; lei aveva le chiavi dell’appartamento. Lui non l’avrebbe accompagnata perché quelle sono cose dell’intimità. E lo disse rivolgendo lo sguardo altrove, accendendosi una sigaretta.

Irene salì fino al terzo piano e alzando lo sguardo, sugli ultimi gradini, le sembrò di trovare qualcosa di noto nel volto di quella signora, che la stava aspettando stringendo in mano il mazzo di chiavi. In effetti si erano incontrate qualche volta, per caso, in coda per l’Opera, o in metropolitana, quando Irene usciva in compagnia del marito. Non si erano scambiate mai più di un saluto. Victor era un uomo conosciuto e salutava talmente tanta gente ogni volta che passeggiava per i marciapiedi del centro, che quella signora, nell’immaginario di Irene non aveva mai ricoperto un ruolo più importante di un buonasera.

Ma in quel momento non poteva ricordare lucidamente tutto questo, tanto era costretta nel dolore e nell’imbarazzo di quella situazione, e rivolse un saluto quasi grato alla donna che custodiva le chiavi del suo mistero.

La signora Utin porse quelle chiavi a Irene, che non volle accettarle. Non erano sue. E con lenta gentilezza, sotto voce, disse “la prego, apra lei” e seguì la signora verso la porta dell’appartamento. Con l’aria di chi, giunto alla resa si sta togliendo un peso, la signora Utin infilò la chiave nella serratura. “Facendo qualcosa che non avrebbe avuto ritorno”, aprì la porta e fece un passo indietro.

Il buio di quell’appartamento sapeva di chiuso. Sul fondo dell’oscurità, solo i contorni della tapparella abbassata, gonfi di luce del sole di marzo.

Irene si chinò e raccolse alcuni foglietti pubblicitari, spinti sotto la porta chissà quando. Li osservò, ma i suoi pensieri si avvitavano nel limbo delle possibilità. Se ne sarebbe potuta andare immediatamente, costruendo chissà quali congetture sulle ombre del dubbio.

Rimase a lungo immobile. Poi prese fiato, socchiuse gli occhi, e facendo scivolare la mano sulla carta da parati della casa, accese l’interruttore. La signora Utin, ancora sul ballatoio, abbassò lo sguardo, come si fa in segno di rispetto quando passa la morte.

“Se avesse bisogno di me, abito nell’appartamento qui di fronte”, disse. E si ritirò.

Irene entrò a passi lenti, quasi chiedendo permesso. Camminò al centro della stanza, come in equilibrio su una fune invisibile, sospesa nel vuoto di quell’appartamento sconosciuto, illuminato dalla luce piatta e lattiginosa di un lampadario bianco.

Si guardava intorno cercando la ragione di quella casa, ma senza avvicinarsi a nulla.

Osservò il vecchio divano di velluto arancione, e un cuscino a terra. Una vetrinetta bianca, piena di scartoffie malamente impilate. Una vecchia borsa di pelle marrone, su una sedia, e una sciarpa di lino. Un tappeto, un telefono grigio, una ciotola con delle chiavi. Una pianta di ficus, ormai secca, riversa su una parete.

E li, su quello stesso muro, appese con ordine, tredici fotografie che ritraevano una coppia in città diverse del mondo. Parigi, Venezia, San Francisco, New York, Montecarlo, Iguazù.

Quella coppia erano suo marito Victor e sua sorella Lucia.

Tra quelle, un’immagine ritraeva anche lei. L’aveva scattata Victor alle due sorelle davanti al Pan de Azucar. Ventisette anni prima, quando Lucia si separò dal marito e la portarono in vacanza a Rio de Janeiro.

Irene non credeva ai suoi occhi. Rimase senza fiato davanti a quella verità. Le gambe iniziarono a cederle, il fuoco nello stomaco e poi il ghiaccio della disperazione. Le si annebbiò la vista.

Indietreggiò, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel muro. Irene riprese a camminare per la stanza, sfiorando con la mano gli oggetti e i pochi arredi. Si sentiva morire, voleva morire.

Entrò nella cucina, fatta di pochi pensili color legno, un frigo con ancora una bottiglia di champagne. Una tazza sul piccolo tavolo di formica, e una confezione vuota di biscotti Manon. Una lavagnetta appesa al muro, su cui la calligrafia della sorella aveva scritto, con un pennarello blu, “torno presto!”. La ricevuta di un ristorante di Puerto Madero e un posacenere vuoto sul tavolo.

Esanime e senza più espressione in volto, Irene continuò quella visita tra i fantasmi della vita. Entrò in camera, lasciò scivolare lo sguardo sulla trapunta a fiori, il quadro sopra al letto con i gauchos di Molina Campos, un paio di scarpe da tango, da uomo, vicino a un comodino. Un grande girasole dipinto, sulla parete con lo specchio. Nell’armadio un lungo abito da sera, di seta rossa. E in un angolo, una chitarra.

Continuava a guardarsi intorno, spaesata, incredula.  Non sapeva neppure che Victor ballasse il tango, e che sua sorelle suonasse ancora la chitarra.

Impotente, rovistava nei cassetti, frugava nelle pieghe più intime del sospetto.

Infine entrò in bagno, con il ghigno di chi osserva il disastro, e non trova niente da salvare.

Come poteva non essersi accorta mai di nulla? Infiniti attimi di quotidianità lontana si rincorrevano nella sua mente. Litigi, ansie, fantasie, dubbi affogati nella fiducia.

Irene incrocia il suo stesso sguardo nello specchio di quel bagno. Nei suoi occhi nudi rivede quelli della sorella e del marito, abbracciati e innamorati. Abbassa il capo, le braccia, si arrende.

Vicino al lavandino ancora i trucchi di Lucia, e la boccetta di  Air du Temps, lo stesso suo profumo. Lo stupido pensiero delle cose che avevano in comune, senza neppure saperlo. Poco più in là, vicino al portagioie, un ciondolo d’oro con la catenina spezzata.

Una smorfia attraversò il sul suo viso nello scoprire i delfini colorati che vi erano dipinti sopra; l’animale preferito di Victor. E ancora un colpo al cuore, quello di grazia, nel leggere l’incisione sul retro: “a un passo dalla felicità, a un passo dal peccato”. Era una frase che Victor portava con se da sempre, e da chissà dove. L’aveva voluta incidere anche in un bracciale regalato a lei molti anni prima.

Irene non ebbe più la forza di andare avanti, le veniva il vomito. Spense la luce alle sue spalle e si buttò in strada.

Camminò tutta la notte, percorrendo le strade del centro come fossero le rovine della sua vita, con una sola domanda in testa: “perché?”.

La vita con Victor era sempre stata felice, quasi perfetta. Su trenta anni di matrimonio non ricordava un periodo di crisi, di afflizione, di noia. Victor era stato un marito premuroso, un uomo sul cui amore si sarebbe giocata la vita, per il quale avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Invece poche ore erano bastate a sgretolare le convinzioni e i sentimenti di una vita intera. Perché non aveva avuto il coraggio di dirglielo? Chissà quanti viaggi di lavoro erano stati invece una fuga d’amore.

E sua sorella Lucia. Per quale ragione farle questo? Il suo matrimonio non aveva funzionato per colpa di Victor? E la lontananza che negli anni le aveva separate sempre più, anche questa doveva essere a causa del rapporto con Victor, e non per la sua malattia. Tutto era diventato una menzogna e la risposta a ogni domanda generava altre domande. Irene stava impazzendo, non riconosceva più le strade, la città, se stessa. Cominciava a sentirsi colpevole, stupida e sola. Mentre le strade della capitale si svuotavano e l’umidità della notte penetrava nelle ossa, Irene continuava a camminare, senza vedere la luce. Fino a che, nel cuore di quelle tenebre, maturò una decisione.

Tornò nell’appartamento di calle Arenales. Raccolse in due grandi sacchi tutti gli oggetti della casa. Ci infilò dentro il profumo, l’abito di seta, le scarpe da tango e la coperta a fiori. Quaderni, carte, lavagnetta e qualsiasi cosa le capitasse per le mani. Tirò giù dalla parete i quadretti con le fotografie e li gettò nel sacco.

Esausta si sedette sul divano, con le mani sul volto, circondata dal silenzio di quella notte eterna. Osservava la parete delle fotografie. Il tempo aveva lasciato il segno delle cornici sul muro. Davanti all’impossibilità di eliminare il passato, un fuoco di rabbia avvolse la ragione. Avrebbe voluto che tutto bruciasse. Lei compresa.

Riprese le fotografie, unica prova in fondo, del rapporto tra Victor e Lucia. Le osservò attentamente ad una ad una, cercando di ricostruirne gli anni, le occasioni, cercando bugie e risposte nei dettagli, negli abiti, nei gesti.

Ma tutto era troppo faticoso ormai, e senza alcun senso.

Perché Victor le aveva lasciato quel fardello? Perché Victor l’aveva lasciata sola?

Prese un coltello in cucina e iniziò a cancellare la verità. Grattò via dalle fotografie il volto del marito, e quello di sua sorella Lucia. Raschiò via i pezzi di corpi nudi, le mani che si sfioravano, i sorrisi. Cancellò se stessa da quella vacanza a Rio de Janeiro, che solo fino a poche ore prima ricordava come un momento felice. Ogni strappo nella carta era uno strappo nelle carni, e un sollievo al tempo stesso. Non si sarebbe mai fermata Irene, avrebbe cancellato tutto, anche la morte del marito se fosse stato possibile, e tutto sarebbe tornato come prima.

C’era una fotografia di Lucia nel cassetto del comò. Ritraeva la sorella il giorno dei suoi 15 anni. Loro madre aveva voluto fotografarla vicino al camino di casa, con l’abito bianco della festa e un rosario in mano. Anche quella foto doveva scomparire. Irene voleva solo che quel posto tornasse ad esserle anonimo e privo di significato come lo era fino a poche ore prima. Voleva riappropriarsi della sua verità, quella di sempre. Le strappò con veemenza il volto, il braccio, e gettò anche quel quadretto nel sacco nero con le altre fotografie.

Prima di uscire si ricordò del ciondolo con i delfini, lo prese e se lo infilò in tasca.

Raccolse i sacchi pieni di memorie da buttare, usci dalla casa e si tirò la porta alle spalle. Suonò il campanello della signora Utin, e le riconsegnò le chiavi.

Erano quasi le 8 del mattino, un tiepido sole filtrava tra i palazzi del centro. Irene abbandonò i sacchi sul marciapiede, vicino alla spazzatura. Salì su un taxi e si diresse all’ospedale psichiatrico Borda.

Per tutto il viaggio si chiese che cosa avrebbe detto alla sorella dopo tanto tempo e dopo tutta la violenza che le aveva procurato. Avrebbe voluto farle mille domande. Avrebbe voluto piangere. Avrebbe voluto ucciderla. Avrebbe voluto chiederle se è stata felice. Ma avrebbe anche dovuto dirle che Victor era morto, che adesso sarebbe stata per sempre sola.

Quando il taxi la lasciò nel cortile antistante l’ospedale, non ebbe la forza di fare nulla. Fermò un infermiere e gli consegnò il ciondolo, insieme ad una mancia, pregandolo di portarlo alla paziente Lucia Benedi. Era troppo tardi per capire o per spiegarsi. Irene, in fondo, voleva ancora una volta far solo finta di niente.

Quando trovai quelle fotografie, unite al resto delle cose di quella casa, tra i sacchi della spazzatura di Calle Arenales, non ebbi la prontezza di immaginare la storia che potessero nascondere. Raccolsi quei quadretti semplicemente perché affascinanti. Col tempo iniziai in maniera ossessionante a voler capire cosa fosse accaduto alle persone che vi erano ritratte.

Quasi un anno dopo, falliti i tentativi di indagine presso i portinai o i remiseros del quartiere, decisi di scrivere un annuncio e appenderlo a tutti gli alberi di quegli isolati. Questa azione non sortì un effetto immediato ma alcuni mesi dopo ricevetti una mail da una signora che si chiama Carmen Utin:

“ Il signor Victor era un uomo gentile, che ha saputo vivere con dignità la miserabile condizione umana dell’amare profondamente due donne … Victor e Lucia si sono incontrati in questo appartamento ogni sabato, e ogni pomeriggio di pioggia, che il Signore ha mandato in terra. Per 29 anni”.

Chele*, il più grande malaffare del sud.

Ho incontrato Susana una sera d’autunno, alla confiteria Costa Rio, al 673 dell’avenida San Martin.

E’ una donna alta e corpulenta. Ha i capelli tinti castano-arancio. I lineamenti appena indigeni. Difficile darle un’età a prima vista. Il suo corpo ingombrante zoppica, e un bastone di legno scuro accompagna i suoi passi mentre mi viene incontro.

Mi avevano parlato di lei in città, della sua storia, e avevo impiegato molto tempo e molte telefonate per convincerla a incontrarmi.

Lei ha scelto il luogo del nostro appuntamento. Io le ho promesso che avrei raccontato questa confessione, ma lo avrei fatto lontano da li.

[aesop_parallax img=”https://www.albertogiuliani.com/wp-content/uploads/2017/02/MG_1867.jpg” parallaxbg=”fixed” captionposition=”bottom-left” lightbox=”off” floater=”on” floaterposition=”left” floaterdirection=”none”]

“Solo una volta ho indossato un vestito da sposa. E fu per uno spogliarello”. Così dice Susana, senza che le sue parole tradiscano rimorso. Senza un’ombra di rancore. Mentre si accomoda a un tavolo della confiteria, quello vicino alla vetrina che da sulla strada.

E’ nata nella periferia di Tucuman nel 1954. Susana non è il suo vero nome. Maria Jimena, si chiamava. Però quel nome durò poco tempo, cosi come la sua vera madre. Maria Jimena fu scambiata per un televisore quando ancora non aveva un anno. Da quel momento, per il mondo, lei divenne Maria Flor. Questo era il nome che la nuova madre sognava per sua figlia ma, dato che di figli lei non poteva averne, decise di comprarla.

Non era la prima volta che, su nel nord, un bambino venisse ceduto in cambio di pochi spiccioli, o di un oggetto. Lo si fa per strapparlo alla miseria e dargli la possibilità di una vita migliore. Lo si regala talvolta, con un carico di dolore che solo la speranza e la sopravvivenza possono alleggerire.

Il 7 giugno del 1955 Maria Flor viene accolta dalle braccia della nuova madre in una coperta di cotone a fiori. La stessa stoffa che per anni adornò le finestre della sua camera, e che la donna aveva comprato al mercato di San Telmo, giù nella capitale.

Viaggiare a Buenos Aires era sufficiente da quelle parti per essere considerate delle persone agiate.

La mamma di Maria Jimena aveva osservato a lungo quella donna, prima di consegnarle la sua piccola. Aveva ben notato che vestiva abiti alla moda, sapeva leggere e scrivere, conosceva le persone che contavano e che, in fondo, un lavoro ce l’aveva. Secondario era ai suoi occhi il fatto che quella donna, per mestiere, facesse la puttana.

Nonostante la vita avesse riservato a Maria Flor un ambiente miserabile, la Susana di oggi ricorda quegli anni e quella matrigna, che mai chiama per nome, con estrema tenerezza e gratitudine. Ricorda gli anni giovani della sua vita come si ricordano tutte le infanzie. Con il sorriso della nostalgia stampato sulle labbra.

“Mi hanno insegnato a lottare e ad amare ogni giorno” dice.

E lo fa chiudendo la mano in un pugno nervoso e deciso, irrigidendo il braccio, come a dimostrare la sua forza.

Susana si accende una sigaretta, di quelle sottili. Sembra ridicola tra le sue grosse dita. Ma lo fa con un’ eleganza fuori dal comune , di chi nei gesti ha conservato tutto il garbo della seduzione.

“Ero bellissima da giovane, snella e bionda, prosperosa, la princesa mi chiamavano. L’età e le malattie mi hanno un po’ rovinato il corpo, ma non lo spirito”. E scoppia in una profonda risata, strozzata dai colpi di tosse, che di tanto in tanto le fanno drizzare la schiena.

La matrigna di Maria Flor aveva un compagno. Si chiamava Ruben e stava scontando una pena in carcere per rapina. Sin dal suo primo giorno di prigione, per tutti i martedì che Dio ha mandato in terra, la sua donna andò a trovarlo portandogli un piatto di humitas, ben raccolte nelle foglie tostate di mais, che preparava con l’aiuto di Flor la sera anteriore.

Sin dalle prime ore della mattina, le due si mettevano in fila all’ombra dei cedri insieme a decine di altre donne, aspettando di essere chiamate per il colloquio settimanale.

Un torrido martedì di novembre del 1970, il destino volle che Maria Flor andasse sola a consegnare il cestino di humitas a Ruben, perché la matrigna non si sentiva bene.

Quando dalla porta del carcere chiamarono il suo nome, Maria Flor lasciò la fila dell’attesa e attraversò il grande cortile di cemento e pietre intorno al quale si incrociano i bracci penitenziari zeppi di celle.

Camminava veloce e con lo sguardo rivolto verso il basso, per ripararsi dal sole e dal silenzio angosciante di quello spazio.

“Bionda!”, all’improviso, gridarono. Quella parola rimbalzò nell’aria bollente, resa ancor più soffocante dalla solitudine di Flor.

“Ehi, bionda!? A te!”. Maria Flor si guardò intorno. E in alto, verso il cielo. Solo due braccia, uscivano oltre le inferriate dall’ombra della finestra di una cella. “Bionda vienimi a trovare giovedì. Chiedi di Ruben Diaz. All’ora dei colloqui!”

“Maledetto quel giorno” dice Susana.

Si ferma un attimo, mentre incrocia lo sguardo di una coppia di giovani che passano tenendosi per mano sulla strada, al di la del vetro.

I 16 anni che bruciavano nel suo corpo, il fascino del mistero e il torbido della miseria. La voglia di essere grande e l’assenza di un padre.

Maria Flor quel giovedì andò all’appuntamento e consegnò il cuore e anima a quell’uomo, al di là del tavolo dei colloqui.

Per quanto ne sapesse poteva essere il peggior assassino della terra. Ma per ciò che i suoi occhi vedevano, e per quel nodo che le stringeva in petto, era l’uomo più bello del mondo.

Ruben uscì di galera due mesi dopo. Aveva 35 anni allora. E trovò Maria Flor ad aspettarlo.

Che grande fortuna Maria Flor. Un uomo che si prendesse cura di te. Non un ragazzo della strada, uno qualunque. Ma un uomo vero, maturo. Un duro.

Ruben aveva i capelli bianchi. Per questo tutti lo chiamavano, sempre con rispetto, “cabeza de ajo” (testa d’aglio).

Dimostrava molto meno della sua età. Era un tipo elegante. Sempre con la giacca e la cravatta, su una camicia ben stirata. Ostico all’apparenza. Eppure per Maria Flor era l’essere più dolce che avesse mai incontrato. Ogni parola di Ruben era per lei un saggio ordine, da seguire fino alla fine.

Susana estrae da una tasca interna alla sua giacca di lanina nera una piccola fotografia, dai colori sbiaditi. Lo fa con timore. Le sue mani accarezzano la foto come per rimuovere la polvere del tempo, poi me la porge come si porge una cosa preziosa.

La porta sempre con se, la conserva all’altezza del petto, vicino al cuore.

“Questo è Ruben” dice, indicando l’uomo ritratto.

Lui, in primo piano, guarda dritto in macchina con un accenno di sorriso. Indossa un pantalone beige a zampa d’elefante e una camicia verde pisello slacciata per metà, i becchi del colletto lunghissimi. Una sigaretta in mano. Una cintura con una grande fibbia d’argento. Alle sue spalle Susana, di tre quarti, distratta, un po’ sfocata. Con un vestito di cotone bianco, i capelli lunghi, e i piedi nudi sulla terra. Sul fondo le cascate dell’Iguazù e una piccola capanna di legno col tetto celeste. Sono all’angolo di una strada sterrata che si perde fuori dall’inquadratura, in una calda giornata d’estate, con le ombre corte, e nere.

“Qui eravamo in vacanza a Iguazù. Ci andammo appena lasciata Tucuman. La nostra prima vacanza. E l’unica. Mi diceva che un giorno saremmo stati così ricchi che avremmo vissuto in vacanza. Io stupida, ci credevo. Ero giovane e innamorata. Le parole di Ruben mi potevano portare ovunque”.

E anche se, una dopo l’altra, quelle parole hanno portato con se dolore e sacrificio, lo sguardo di Susana ancora vacilla, e la parola trema, davanti a quella fotografia che li ritrae.

Ruben era finito a Tucuman per un malaffare. Una bisca andata male, che lo ha portato in prigione. E aveva giurato a se stesso che se ne sarebbe andato il prima possibile. Voleva tornare nella sua Capitale. Voleva tornare ad essere il timbero (lunfardo, significa giocatore) della notte porteña, quello che tutti i giocatori d’azzardo porteñi chiamavano “cabeza de ajo”.

Maria Flor si lascia convincere in fretta. Per i suoi 16 anni senza radici, Ruben aveva progettato un futuro da ballerina nella Capitale.

I giorni della vacanza d’amore sfuggono veloci e poche settimane dopo la scarcerazione, Ruben e Flor salgono sul bus che li avrebbe portati fino all’Obelisco de la Nacion. Il cuore di Buenos Aires.

Quante fantasie, quanti abbracci, quanti sogni in quel viaggio. Quell’autubus scalcagnato, che sobbalzava cigolante ad ogni minima buca, era per Maria Flor la carrozza più bella. Il mondo che neppure osava sognare era tutto li. Nell’avventura, nel viaggio, nell’amore per il suo principe che le sedeva affianco.

Susana non la prese male quando Ruben le disse che per la nuova vita, lei avrebbe dovuto cambiare nome. Serviva un nome più consono, più all’altezza dell’arte, più sognatore. Proprio così disse. Più sognatore.

“Susana” gli sembrava perfetto. Suona bene, disse. E fu così, attraversando di notte i campi del Chaco, che Ruben fece nascere Susana e fece morire per sempre Maria Flor. Senza che lei neppure se ne accorgesse, per la seconda volta, la sua vita veniva plasmata dal piacere di altri. Nello stesso istante, tacitamente, Ruben aveva vestito l’abito del caffiolo (parola lunfarda per indicare colui che vive della prostituzione della compagna).

Il primo locale dove Susana si esibì si chiamava Exotica. Si trovava nel pieno centro di Buenos Aires, in calle Corrientes, a pochi passi dalla Casa Rosada e da Puerto Madero.

Ruben le aveva comprato un vestito anni 30, e si era fatto prestare una lunga collana di perle finte e lunghi guanti di raso viola.

Susana ancora ricorda l’emozione dei primi passi su quel palco. Non provava vergogna, solo timore di sbagliare. Di non piacere a Ruben. Mentalmente cercava di ricordare le prove fatte in camera, mentre Ruben steso sul letto, gambe accavallate, dispensava consigli. E lei ballava, si dimenava cercando di tingere di sensualità quel suo fare ancora acerbo, ma che tanto sarebbe piaciuto ai clienti. Poi Ruben le diceva brava, battendo in alto le mani, e stringendo tra le labbra la sigaretta accesa. E, sempre, finivano col fare l’amore.

Sul palco sarebbe stato identico, gli aveva detto Ruben. Io sarò li a guardarti. E quando finisci il tuo show decine di mani ti applaudiranno. Tu corri da me, in camerino, e faremo l’amore.

“ Che tonta” dice Susana, contraendo le labbra e battendosi un pugno sul capo. “Testona”.

Ruben però non si era sbagliato. Susana era bravissima, e il pubblico la adorava. Forse non aveva l’esperienza delle altre. Ma in quel corpo giovane e morbido che si muoveva sul palco, c’era qualcosa di sincero che eccitava gli spettatori.

“Era l’amore” dice Susana. “Ballavo per amore del mio uomo”. E i miei occhi lo gridavano forte. “Ogni passo, ogni sospiro, ogni sguardo, erano per lui”.

Non le importava di trascurare il suo corpo, di venderlo o mortificarlo. D’altronde quel corpo non si sapeva neppure più a che nome rispondesse. Se non a quello di Ruben.

Il pubblico la amava, le gridava “hermosa”, “divina”, le gettavano fiori e pesos sul palco. E lei imparò presto a ricambiare l’amore delle platee.

Le offerte di lavoro si moltiplicavano di giorno in giorno. Il locali notturni della Capitale facevano a gara per averla.

All’inizio della primavera del 1973 Ruben le organizza una vera tournee. Santa Fe, Rio Negro, Neuquen, Bahia Blanca, Cordoba. Poi in Uruguay e in Paraguay. Sempre tutto esaurito. E il camerino stracolmo di fiori, lettere di ammiratori e regali.

Ruben sapeva perfettamente come dominare e proteggere Susana. Tu sei una diva, le diceva. Non devi mai concederti a nessuno. Lasciali credere ciò che vogliono, non dire mai di no, ma non metterti mai nella condizione di dover dire di si.

“Una sera un gruppo di Colombiani si innamorarono di me. Cominciarono a seguirmi in tutte le serate. Mi facevano arrivare in camerino regali preziosi. Orologi, collane, gioielli. Mi volevano portare in tournee in Colombia. Arrivarono perfino a offrire a Ruben di comprarmi. Ma Ruben ha sempre rimandato indietro tutti i loro regali, fino all’ultimo. I Colombiani sono pericolosi, diceva. Sono narcotrafficanti senza scrupoli. Ruben era cosi preoccupato della loro insistenza che decise di interrompere gli spettacoli per qualche tempo, fino a che non sparirono dalla circolazione.”

Erano anni d’oro. Susana e Ruben vivevano in luoghi lussuosi. Avevano a disposizione auto e autisti, i migliori ristoranti offerti dagli ammiratori. Con due mesi di lavoro si comprarono un hotel nella capitale. In diciassette giorni un’auto. Erano ricchi.

“Ruben perse tutto al gioco. Ma per noi, tutto era un gioco e non ci preoccupavamo. La ruota della fortuna girava, alla grande”

Una vita che quella Maria Flor di Tucuman non avrebbe neppure potuto immaginare, tantomeno Maria Jimena. Servita, riverita, col suo uomo che le faceva la valigia ogni volta, e chi la riconosceva le facevano il baciamano.

Eppure a Susana iniziava ad andare stretta. Non per il lavoro che facesse, che tutto sommato le scivolava addosso senza troppo fastidio. Ma perché aveva voglia di fermarsi un po’, di tornare a sognare abbracciata al suo Ruben. Sentiva il bisogno di ritrovare l’amore. Aveva voglia di avere un figlio.

E pochi mesi dopo rimase incinta.

“Stavamo bene, non ci mancava nulla. Champagne ogni sera. Inviti, cene, feste, eravamo sempre ospiti di persone importanti, politici e generali. Però cominciava a mancarmi la mia vita. Avevo voglia di un po’ di tenerezza e di mettere delle radici.”

Susana partorì il 12 novembre del 1979, alle 4,30 del mattino, nell’ospedale Italiano di Buenos Aires. Al figlio, un maschietto di appena tre chili e cento grammi diedero il nome di Miguel.

“ricordo gli istanti in cui lo allattai per la prima volta. Avrei voluto che non finissero mai”.

Per Susana era ora di uscire dal giro, tanto più che la gravidanza le aveva lasciato un corpo materno che non andava più bene per il raffinato pubblico Bonarense. Ruben, che al principio rifiutava l’idea di essere padre, si sentì enormemente fiero di suo figlio sin dal primo giorno in cui lo vide, e lo sollevò in alto, al cielo.

Promise a Miguel e Susana una vita nuova.

Presto avrebbero lasciato Buenos Aires.

In quegli anni di tormentata politica in Argentina, il sud offriva un buon rifugio e delle buone occasioni, lontani dai giochi di potere e dal sangue della dittatura che macchiava le strade della capitale.

Nel marzo del 1980, Ruben e Susana, col piccolo Miguel in braccio, scendevano dal treno che li aveva portati a Rio Gallegos, nella punta più a sud del continente americano.

Ruben non aveva scelto a caso il posto dove stabilirsi.

Rio Gallegos nasceva come base militare, avamposto dell’isola di Terra del Fuoco e retrovia delle isole Malvinas. Si era poi sviluppata con le vicine miniere di carbone del Turbio. E in questi anni era terra di approdo di tutti i ricchi stranieri che qui venivano a investire nelle sconfinate terre patagoniche. Il mercato della lana tirava e ogni giorno sbarcavano uomini in doppio petto dall’Inghilterra, dalla Scozia, dalla Spagna. Pionieri carichi di denaro, vicini al regime, in cerca di avventura. Rio Gallegos era una città fatta di soli uomini, rudi come il vento e la solitudine di queste latitudini. Uomini che quando non facevano affari, affollavano le rumorose taverne della città. Si ubriacavano di aguardiente e non di rado, facevano fischiare i coltelli.

Qui Ruben ritrovò alcuni amici degli anni lontani. Con loro ricominciò a lavorare col gioco d’azzardo, le bische clandestine e anche qui divenne per tutti “cabeza de ajo”.

Ottenne presto la notorietà che cercava e i suoi tavoli verdi, sul retro del caffè “los petroleros”, erano sempre affollati. Ovviamente non disdegnava di giocare lui stesso se considerava i suoi avversari all’altezza, e questo faceva si che le economie familiari fossero altalenanti, tra serate di grandi vittorie e insonni nottate di debiti.

Susana però era contenta, continuava di tanto in tanto a fare qualche spettacolo nei nights di Rio Gallegos. Certo, al pubblico sofisticato delle notti Bonarensi si era sostituita una platea fatta per di rozzi militari, minatori e gauchos.

“Gli apprezzamenti non saranno stati eleganti, ma ero sempre la donna di Cabeza de Ajo. Questo era sufficiente per frenare gli entusiasmi ed essere rispettata. Mi chiamavano la Signora” ricorda Susana con orgoglio.

“In quegli anni arrivarono moltissime ragazze per fare la vita a Rio Gallegos. Era un posto protetto, lontano dagli affetti, pieno di lavoro e ben pagato. Solitamente andavano a vivere giù, vicino al porto. Dividevano l’affitto di una casa e ricevevano i clienti a qualsiasi ora. Chiamavano le amiche, le compaesane del nord e affittavano una casa vicina. Così a poco a poco si è formato un quartiere che ancora oggi si chiama “las casitas”. Negli anni gli affari sono aumentati tanto che la città ha deciso di isolarlo e ora è dietro la prima pompa di benzina YPF, quando arrivi in città dalla Ruta 3, li c’è una strada sterrata che porta all’antenna radio… da li inizi a intravedere le prime luci rosse…”.

A Rio Gallego le estati sono corte e sempre ventose. Gli inverni freddi e silenziosi. Ma è in questi mesi che Cabeza de Ajo concludeva le serate migliori. E proprio per la notte più lunga del 1982, il solstizio d’inverno, aveva organizzato la bisca del secolo, come la chiamava lui. La sua più grande scommessa personale. Voleva rimanesse nella storia e ci riuscì.

Parteciparono i più grandi proprietari terrieri di Patagonia. Vennero da Buenos Aires, dal Cile e dall’Uruguay. Professionisti del gioco, alti gradi dell’esercito, politici e uomini d’affari. Inglesi, Croati, Irlandesi, Spagnoli. Tutti intorno ai 100 tavoli di panno verde che Ruben aveva allestito al Club Britannico.

Il gioco sarebbe cominciato alle 16,30, al calar del sole, e sarebbe  terminato solo alle 9,30 della mattina seguente. L’ora dell’alba.

“Ruben non volle che lo seguissi quella notte. Io lo avevo sconsigliato, stavamo bene e non volevo che ci giocassimo il futuro in quel modo. Passai tutta la notte in piedi, alla finestra, con Miguel che dormiva sul divano al mio fianco. Alle 5 del pomeriggio seguente non era ancora tornato. Pensavo al peggio. Poi invece lo vedo arrivare, sulla sua Ford falcon celeste. Scende, cammina a passo spedito verso casa. Cercavo di interpretare il suo volto senza espressione che si illuminava di arancio sotto ogni lampione della strada. Non sapevo cosa pensare. Entra, e si chiude la porta alle spalle. Mi abbraccia e mi dice che avevamo incassato 32 milioni di pesos. Una fortuna.

Siamo ricchi, pensai. La fine di qualsiasi problema. La vita nuova che ci aveva promesso, era arrivata. Lo abbracciai, baciai, felice come nel risveglio da un incubo. Ma durò solo un istante. Fino a quando Ruben mi disse che quei soldi non li avremmo tenuti noi. Li avremmo dati a un giovane. Nestor Kirchner si chiama. Mi sembrava la cosa più assurda che avessi mai sentito. Potevamo dimenticarci del passato, della vita di notte, dei debiti. E invece avremmo regalato il nostro futuro a uno sconosciuto. Dovetti aggrapparmi con tutto l’amore che provavo per Ruben alla fiducia che non gli avevo mai fatto mancare.

E comunque, anche questa volta, non potevo scegliere.”

Nestor aveva 34 anni, era di Rio Gallego e si era sposato pochi anni prima con Cristina, una sua compagna di studi. Entrambi avevano un passato di impegno politico, carcere e lotta rivoluzionaria. Peronisti.

Ruben aveva sentito parlare di Nestor da molti amici importanti. Glielo avevano presentato quella notte, tra i tavoli da gioco, in un aria spessa di fumo di sigarette e secco odore di whisky. Nestor aveva un progetto politico ambizioso e aveva le carte per realizzarlo. Ma per percorrere la sua scalata aveva bisogno di appoggi. Di soldi.

In quella notte australe, mentre tutti si giocavano tutto, mentre il Paese si giocava le ultime vite del suo misero esercito sulle isole Malvinas, Ruben decise di credere a quell’uomo. Gli promise l’incasso della serata, a patto che quel Nestor gli avesse dato la gestione dei casinò della Provincia, e magari del Paese, appena avesse potuto farlo.

Su quella parola spesa, Nestor ricevette l’incasso della serata per finanziare la sua carriera politica.

Anche se la ricchezza di Susana non durò neppure il tempo di un sogno, la gloria di quella storica notte consacrò lei e il suo uomo per lungo tempo. In tutta la città “la Señora e Cabeza de Ajo” erano salutati e accolti come illustri ospiti. Susana passeggiava per le vie del centro a braccetto di Ruben con una gioia che non aveva mai provato prima. La sua vita era piena di fortune, pensava.

“Il mondo mi crollò addosso la notte del 29 novembre 1982, quando Ruben fu assassinato sulla porta di una bisca.

Stava giocando a dadi con una coppia di inglesi. Si accorse che i dadi erano truccati, col piombo. Lasciò il tavolo insultandoli. I due lo inseguirono fino in strada, gli spararono, lo pugnalarono e nessuno li vide più. Ruben morì dissanguato in un angolo buio di strada.”

Cabeza de Ajo non ebbe il tempo di vedere che non si era sbagliato scommettendo sui giovani Kirchner. Nestor di li a poco divenne prima intendente della città, poi governatore della provincia fino ad essere eletto nel 2003 Presidente della Nazione. E ad accompagnarlo ci fu sempre la moglie Cristina, che lo successe alla Presidenza del Paese dal 2007 sino ad oggi.

“Mi ritrovai sola, in cinta e presto scoprii anche di dover pagare un sacco di debiti di gioco che Ruben aveva lasciato. Dovevo ricominciare a lavorare. Ma conoscevo solo un mestiere, e da quello ricominciai.” Dice Susana con la fierezza di chi ha passato ogni cosa.

Susana vendette l’unico fazzoletto di terra che le rimaneva e comprò una casita in quel quartiere di bordelli vicino al porto. La chiamò Venus. Si procurò alcune ragazze appena arrivate in città che in cambio di vitto, alloggio e una buona percentuale sulle prestazioni, soddisfacevano i clienti.

Susana conosceva così bene il mestiere e quella vita, che fu da subito considerata da tutte la miglior dueña. Anche qui cominciarono a chiamarla come in città, la Señora. Aveva per tutte una parola di conforto e nello stesso tempo il carattere fermo per guidare le ragazze o intimorire gli avventori troppo molesti. Susana ha servito bicchieri di ginebra dietro il bancone del Venus per infinite notti, mentre il piccolo Miguel dormiva in compagnia di una anziana donna di fiducia. All’alba tornava a casa, e faceva finta di essersi appena svegliata. Accompagnava Miguel all’asilo, e poi a scuola. Quella doppia vita sarebbe rimasta un mistero, almeno nella formalità delle conversazioni tra una madre e un figlio.

“Piangevo, eccome. Ma lo facevo di nascosto, perché la Señora non aveva bisogno di nessuno. Non ero felice.”

Nelle quattro stanze del Venus sono arrivate a starci più di venti ragazze nei periodi più caldi di lavoro. Di li sono passate minorenni, o ragazze in cinta. Ma loro non le ha mai fatte prostituire. Le metteva con la pancia sotto il bancone del bar a servire da bere.

Al massimo qualche ballo se il juke box cantava la musica adatta.

“Insegnavo alle ragazze tutti i trucchi del mestiere. Prima si paga e poi si va in camera. Se quando la ragazza mi porta i soldi, bussa sul bancone, io sapevo che dovevo mandare a chiamarla prima che passasse il tempo pagato.

[aesop_gallery id=”384″ revealfx=”off”]

Chi voleva avere a che fare con me doveva stare alle mie regole. E tutti mi rispettavano. Una notte due stranieri ubriachi hanno avuto da ridire perché pretendevano una ragazza che io non volevo dargli. Li ho sbattuti fuori. Loro hanno tirato fuori un coltello. Allora dalle altre casitas sono uscite tutte le ragazze e hanno iniziato a tirargli dei sassi. Sono scappati e non si sono più fatti vivi. Mi volevano bene le ragazze, e se qualcuna aveva un problema anche con altre padrone, veniva da me e io le aiutavo. Erano tutte povere disgraziate che per inseguire l’amore erano finite per venderlo. Venivano quasi tutte dal nord, dalle province povere, dalle periferie. Alcune portavano le sorelle, altre studentesse che venivano a farsi una stagione per pagarsi gli studi. Madri sole che lasciavano i figli ai nonni e mandavano soldi alla famiglia ogni settimana. Ragazze finite nei guai che dovevano scappare dal mondo. Tutte venivano a rifugiarsi qua al sud, dove il mondo finisce. Di tutto è passato, e di questo tutto sono stata sempre la Señora, la loro amica. Fino a qualche mese fa, quando Miguel ha trovato lavoro all’ufficio del Ministero della Salute. Il primo giorno che è tornato a casa mi ha detto: “ mamma, in ufficio tutti sanno che lavoro fai…” Non l’ho lasciato finire la frase e gli ho detto che ci avevo già pensato e che giusto quel giorno avevo venduto la casita. E così feci. Il pomeriggio stesso vendetti Venus agli attuali proprietari.”

Susana si mise così a cercare un nuovo lavoro che potesse mantenere i pochi piaceri che le giornate della desolata Rio Gallego potessero dargli. Il fumo, un bicchierino ogni tanto, e il bingo tutte le sere che il portafogli glielo permettesse.

Ironia della sorte, Susana ha trovato lavoro nella cucina del Vescovado. La diocesi di Rio Gallego è una delle più importanti di Patagonia e capita spesso che ci siano ospiti di passaggio. Preti di lontane parrocchie o visite pastorali. Durante il suo primo giorno di lavoro, insieme alla perpetua della cattedrale, avevano preparato un pranzo per la visita del parroco di Rio Grande. Ormai al termine, tocca a Susanna servire il dolce. Dispone i flan di riso in un vassoio e si prepara alla sua prima uscita nella mensa cardinalizia. Ma non appena si affaccia nella sala da pranzo le si gela il sangue. L’ospite di riguardo della giornata, il prete di Rio Grande, lei lo conosceva fin troppo bene. Era stato più volte suo cliente a Venus.

“Che vergogna” dice Susana ridendo sguaiatamente, tenendo una mano davanti alla bocca, quasi per pudore.

“mentre servivo il budino di riso a testa bassa cercando di non farmi riconoscere, avevo in mente le immagini di lui nelle notti di bagordi, e tutti i vizi che più gli piacevano”. E raccontando ciò, Susana con una gesto mima le prestazioni più gradite dal bizzarro cliente.

“Non mi vergogno di nulla” riprende Susana, ora con fare serio. “Ho vissuto meglio che potevo la vita che mi è stata data. Se potessi tornare indietro non rifarei molte cose, ma l’amore, l’inesperienza, l’incoscienza si pagano. E io credo di aver saldato con onore tutti i debiti. Miei e di Ruben. Oggi sono nonna, ho un nipotino di 4 anni, figlio di Miguel. Si chiama Ruben, come il nonno. E’ la gioia della mia vita. Mi fa sorridere quando viene in camera mia. Sul comodino ho una scatola scura e lucida, sulla quale c’è scritto Ruben “Cabeza de Ajo”. Sono le sue ceneri, ma il piccolo non lo può capire e tutte le volte vuole aprirla perché pensa sia un regalo per lui”.

 

*Chele: in Lunfardo significa latte infelice.

Mio padre

“ Lo que el arbol tiene de florido vive de lo que tiene sepultado “

Rio Gallego, 7 gennaio 2006

“ Ci sono cose che non ho mai detto a mio padre. Ed è per questo che ogni volta che penso a lui torno ad un’infanzia di vento interminabile. Mi vedo camminare con lui mano nella mano, per le strade di un paesino che ora ricostruisco attraverso le cartoline di un’altra epoca, o attraverso le sue lettere nelle quali domandava dei miei studi e della salute della mamma. Ricordo le sue parole di addio che sempre ho pensato fosse temporaneo, il suo modo di intendere la vita con quel tenero rigore degli uomini. Quando penso a lui, penso alle notti d’inverno trascorse nella sua assenza, quando nel vetro appannato della cucina scrivevo il mio nome a lettere grandi, le lasciavo gocciolare e mi perdevo, guardandoci attraverso, nella strada che lui percorreva come un viaggiatore per andare al lavoro e che portava dritta al mare. Ricordo le mattine all’alba quando la voce del suo ritorno mi svegliava. Ogni 15 giorni quando mio padre lavorava nella miniera di carbone di Rio Turbio. Saltavo giù dal letto e a piedi nudi correvo fino alla soglia di casa, perché mi vedesse ancora prima che riuscisse a posare le borse di cuoio duro, colore del caffè. La mamma smetteva di tessere, gli andava incontro e lo baciava. Io la imitavo. Ricordo i suoi baci, dall’aroma di tabacco nero e mate. Ricordo le sere, quando vicino alla cucina economica lui mi carezzava la testa e senza dire una parola, riempiva la sua vecchia pipa di tabacco profumato. Sapevo che poi avrebbe iniziato a raccontare. Storie.

[aesop_parallax img=”https://www.albertogiuliani.com/wp-content/uploads/2017/02/MG_0758.jpg” parallaxbg=”fixed” captionposition=”bottom-left” lightbox=”off” floater=”on” floaterposition=”left” floaterdirection=”none”]

Storie di uomini sconosciuti e di mari lontani. Forse reali o magari inventate. Non era importante perchè quelle notti di respiri leggeri seguivano i giorni violenti di malattia della mamma. Raccontava di capitani ed eroi nello stretto di Magellano, di tempeste e di danze indigene, di ragazze con le gonne a fiori e matrimoni felici, di driadi e tritoni marini.  Quei racconti erano il nostro modo di comunicare e valevano più di mille parole quando lui era lontano. Il più delle volte dovevo affrontare sola la furia delle crisi di nervi della mamma, mentre lui scavava il ventre nero della terra per trasformare il carbone in pane. La mamma mi picchiava quando la depressione diventava più forte di lei. Allora, da quelle parti, credevano che quei raptus fossero segni di una stregoneria nera e li curavano con galli sgozzati e amuleti magici. Una volta, con papà, la portammo dalla “Dama del colmillo”. E’ una delle maghe più conosciute di tutta la provincia di Santa Cruz. Il viaggio fu infinito ma quando vedemmo la mamma svenire all’interno del circolo di conchiglie e pietre, mentre la Dama continuava a danzarle intorno brandendo un gallo per le zampe, pensammo veramente che il demonio avesse lasciato il suo corpo. Invece appena il giorno dopo, mentre mio padre stava lasciando la città per altri 15 giorni, la mamma si chiuse di nuovo in sé e ricominciarono le crisi. All’inizio scappavo, gridavo, piangevo e chiedevo perché. Alla fine, sola nel mio dolore e nell’incomprensione alzavo le braccia a proteggere il viso. Allora i racconti di mio papà si trasformavano nel suo abbraccio affettuoso e quei mari immaginati, impetuosi, che confondevano i destini degli uomini, lavavano via il dolore e mi portavano a momenti più felici.”

[aesop_parallax img=”https://www.albertogiuliani.com/wp-content/uploads/2017/02/06Af23.jpg” parallaxbg=”fixed” captionposition=”bottom-left” lightbox=”off” floater=”on” floaterposition=”left” floaterdirection=”none”]

 

La porta della sala si schiuse per un colpo di vento e una sottile lama di luce ferì il buio, dove solo brillavano le braci nel camino ormai spento. Nell’altra stanza Claudia stava ancora guardando la televisione con la piccola Maria che come ogni notte non voleva dormire. Mi alzai e richiusi la porta. Lo feci in fretta perchè faceva freddo lontano dal fuoco e perché non volevo distrarre Silvana da quella confessione. Nevica ancora, dissi guardando fuori dalla finestra che stava alle nostre spalle. Tornai sul tappeto, vicino a lei, sotto la coperta che ci univa. Guardammo per un po’ le braci scintillare, in silenzio. Poi Silvana riprese a raccontare.

“Una notte come questa sognai mio padre e il giorno seguente ricevemmo un telegramma. Nel sogno percorrevamo su un’auto rossa una strada, tra piante di calafate e di junquillo. Sorridevamo e lui mi carezzava la testa ogni tanto mentre cercava di accendere la radio che non voleva funzionare. Il telegramma raccontava di un incidente in miniera nel quale papà era rimasto gravemente ferito. Si sollecitava la presenza di un familiare.

Da quel momento la mamma non disse più una parola. Ricominciò a tessere e non mi rivolse più lo sguardo. Neppure un saluto quando quella sera, ripercorrendo i passi che papà aveva fatto infinite volte, andai a prendere l’autobus per la miniera. Scendendo per quella strada, ricordo che mi voltai per vedere se la mamma mi stesse guardando dalla finestra della cucina come nelle mattine d’inverno quando andavo a scuola. Scorsi solo un gesto di saluto della vicina di casa che si sarebbe presa cura di lei nei giorni della mia assenza. Sulla neve rimanevano le impronte dei miei passi come giorni prima vi rimasero quelle di mio padre.

Arrivai agli uffici della mina 1 la mattina all’alba assieme a decine di uomini che avrebbero dato il cambio a chi sotto terra aveva terminato il proprio turno. Anche papà avrebbe ripreso il bus verso casa quella sera, e la mattina seguente io avrei aspettato il suo bacio, in camicia da notte e in punta di piedi, sulla pietra fredda dell’ingresso di casa. Andai agli uffici sanitari e mi presentai. Mi chiesero quanti anni avevo. 16 risposi, anche se li avrei compiuti due mesi dopo. Mi chiesero se c’era mia madre. Dissi che non poteva venire.

Un braccio della miniera era crollato all’improvviso e aveva sepolto un piccolo gruppo di minatori. Inutili i soccorsi perché il posto era irraggiungibile a causa di un’infiltrazione d’acqua che aveva allagato il tunnel e reso impossibili i soccorsi. Tempo dopo appresi che l’amministrazione della miniera aveva atteso una settimana prima di avvisare i familiari, nel tentativo di riportare in superficie i corpi. Una gentile signora mi riconsegnò gli effetti personali di mio padre. Le due sacche di cuoio, i vestiti, alcuni giornali e una piccola radio di plastica rossa. Un sacchetto di tabacco da pipa e qualche sigaretta senza filtro. C’era anche una busta di carta gialla con dei soldi, e una pagina del quotidiano di Santa Cruz che annunciava l’arrivo della tournèe di Fito Paez. Si chiamava “El amor después del amor”. L’articolo riportava il prezzo del biglietto di 50 pesos e la data unica del concerto il 18 Ottobre. Il giorno del mio compleanno.

Raccolsi tutte queste cose senza neanche una lacrima. Sapevo cosa avrei dovuto fare. Presi il primo autobus diretto verso la costa e di lì continuai fino alla fine del continente. Arrivai a Cabo Virgenes un pomeriggio alle 4. Ricordo lo sguardo perplesso dell’autista quando scesi dall’autobus nel mezzo del niente. Ero contenta di restare sola con le acque dello stretto di Magellano che mi riempivano gli occhi e il cuore. E che vedevo per la prima volta.

Mi avvicinai alla riva camminando sulla terra soffice e umida. Portavo sulle spalle le borse di papà, e la leggera consapevolezza che ciò che stavo per fare lo avrebbe fatto felice. Percorsi il molo di Cabo Virgenes fino al fondo. Gettai alle onde tutte le sue cose. Vidi le due borse di cuoio danzare in balia delle onde come se dovessero galleggiare per sempre. Poi anche loro sprofondarono nelle acque fredde dello stretto, per raggiungere quegli eroi che mio padre cantava, che io sognavo, e tra i quali oggi, forse, c’era anche lui. Camminai per molte ore, piangendo. Con i soldi del mio regalo di compleanno finanziai la mia fuga dalla realtà. Andai prima a Ushuaia poi a Porvenir, perché offrivano un lavoro da impiegata al porto. Pochi mesi dopo decisi di andare a Buenos Aires, ma la città non fa per me e dopo un anno nel quale lavorai come cameriera e poi come commessa in un Pharmacity decisi che era arrivato il momento di tornare al sud. Di rivedere mia mamma e di mettere in ordine il passato. Fu nel viaggio verso Rio Gallego che conobbi Guillermo, il padre dei miei figli.”

[aesop_parallax img=”https://www.albertogiuliani.com/wp-content/uploads/2017/02/MG_2045.jpg” parallaxbg=”fixed” captionposition=”bottom-left” lightbox=”off” floater=”on” floaterposition=”left” floaterdirection=”none”]

Omicidio

Il dott. Fernando Aviles è uno degli psicanalisti più stimati di Rosario.

Da lui ho imparato le mie poche nozioni di psicologia. Spesso mi faceva assistere alle sue preziose consulenze individuali. Mi presentava come il dottor Giuliani, “dell’Italia” diceva. E portava i suoi pazienti a confidarmi tradimenti e nevrosi.

Lo faceva per noia, non ne poteva più di ascoltare i fatti degli altri e se continuava a farlo era solo per i 300 pesos che dopo 45 minuti esatti scivolavano sul tavolo assieme ad un sentito “grazie dottore”.

Non era per la stessa ragione invece che due volte a settimana riceveva i pazienti indigenti nel consultorio pubblico del ministero della salute.  Diceva che lo faceva per prestigio ma ho sempre pensato che in fondo, in quell’inconscio che lui tanto bene esamina, provasse rimorso e una certa nostalgia.

 

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”right” size=”1″ quote=”Diceva che lo faceva per prestigio ma ho sempre pensato che in fondo, in quell’inconscio che lui tanto bene esamina, provasse rimorso e una certa nostalgia.” revealfx=”off”]

Aveva passato quaranta anni della sua vita cercando di aiutare i bambini di strada delle villa miseria, fino a che una sera di ottobre decise di non volerne più sapere perché tanto erano “tutti delle merde e il  mondo non cambierà mai”.

Era successo qualcosa che lo aveva ferito profondamente. Aveva deciso di chiudere la porta alla miseria e lo fece con la fermezza che da sempre lo contraddistingue.

Comunque stiano le cose non mi stupì troppo che, quando una ragazza e sua madre bussarono alla porta del consultorio pubblico, Fernando si alzò e mi lasciò solo con le pazienti, presentandomi nuovamente come “il dottor Giuliani dell’Italia”.

La grassa donna doveva avere una quarantina d’anni mal portati. Vestiva il puzzo della villa miseria e sotto il braccio portava una grossa busta gialla dell’ospedale Provinciale. La figlia al contrario trasmetteva una certa dignità e una strana bellezza. Se non fosse stato per un rossetto troppo rosso e un sorriso disordinato si sarebbe potuto pensare che venisse da un quartiere bene del centro.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”left” size=”1″ quote=”La figlia al contrario trasmetteva una certa dignità e una strana bellezza.” revealfx=”off”]

La madre estrae dalla busta delle radiografie, me le porge e mi prega di guardarle con attenzione.

Secondo lei avrei dovuto vederne una terribile malformazione alla colonna vertebrale della sua piccola, che non le permette di dormire, che le dà continui dolori e che l’avrebbe presto portata alla paralisi. Io nonostante cercassi di osservarle con attenzione rivolgendole contro la luce al neon del soffitto, non ci capivo proprio un bel niente. Così recitavo una faccia compassionevole e preoccupata, osservavo la figlia, che peraltro sembrava del tutto disinteressata alla conversazione. Annuivo pensieroso ai pronostici drammatici della donna e non potei esimermi dal mentire alle sue suppliche, promettendole di parlare del suo caso a qualche medico influente dell’ospedale. Con imbarazzo, appena la madre me ne diede l’opportunità, troncai la discussione e chiesi quale ragione le aveva portate fin lì.

I professori di scuola avevano richiesto un colloquio con lo psicologo perché il rendimento scolastico e la condotta della figlia erano pessimi.

 

[aesop_parallax img=”https://www.albertogiuliani.com/wp-content/uploads/2017/01/GIA200519-07-copy.jpg” parallaxbg=”on” caption=”Doctor Aviles seated in his public counseling at the local Health Ministry Office” captionposition=”bottom-right” lightbox=”off” floater=”on” floaterposition=”left” floaterdirection=”none”]

Sapevo bene che né alla ragazza né alla madre importava nulla della scuola. Né ai professori importava della ragazza. Tutti eravamo vittime di un sistema pensato per scaricare le responsabilità e con essi i sensi di colpa di una vita fatta di sopravvivenze quotidiane. L’unica cosa che avrei dovuto fare era ascoltare per qualche  minuto le ragioni della ragazza, dirle di impegnarsi di più d’ora in avanti, prendere il prestampato della scuola, compilarlo, apporci rumorosamente un timbro, una firma illeggibile e rispedire le due donne a casa. Così saremmo stati tutti contenti. Ma quella ragazza aveva un che d’intrigante. Arrogante e tenera nello stesso tempo. Chiesi alla madre di accomodarsi fuori e di lasciarmi solo con la figlia.

Quando si chiuse la porta, la ragazza stava ferma in mezzo alla stanza, sotto la luce del neon che le scivolava sui capelli neri, lunghi e lisci. Il rossetto vivace, un giubbotto bianco e corto. Le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans. Le dissi di sedersi, indicandole l’unica sedia che si trovava nella stanza oltre alla mia. Si avvicinò alla scrivania slacciandosi il giubbotto e lasciando intravedere una volgare scollatura. Si accomodò di fronte a me con uno sguardo di sfida che non seppi sostenere. Abbassai lo sguardo e le chiesi come si chiamasse.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”right” size=”1″ quote=”Si faccio uso di droghe. Poxiran, pasticche e marijuana. Si, anche alcolici se sono con gli amici.” revealfx=”off”]

Eluana Rios. 14 anni. Scuola numero 3. Si faccio uso di droghe. Poxiran, pasticche e marijuana. Si, anche alcolici se sono con gli amici.

Avevo esaurito le mie domande sconcertato da una bruciante sincerità. Avevo annotato queste poche informazioni su di un foglio bianco come avevo visto fare mille volte a Fernando. Avrei continuato con altre domande banali come se fosse fidanzata, quanti fossero in famiglia e cose di questo tipo. Ma esitai un attimo, lasciai scivolare pigramente il mio sguardo sul vuoto noioso della scrivania, sulle fessure delle vecchie pareti di legno, sulla cassettiera metallica buttata in angolo. Guardai l’apparecchio telefonico col lucchetto sul disco dei numeri, pensai che quella stanza non aveva finestre e mentre stavo per domandarle del suo rapporto coi genitori Eluana disse: “vuoi che ti racconto di quando abbiamo ammazzato un tipo?”.

Nel pronunciare quelle parole le sue labbra rosse si schiusero a uno strano sorriso mostrando i denti neri di miseria e spaccati dalla follia.

“aveva piovuto per giorni e le strade di Villa Norte sembrava non sapessero più dove portare i fiumi di fango che si erano formati. Io mi ero fermata a dormire a casa di Adel, il mio fidanzato. Quella mattina aveva ricevuto una telefonata dal suo socio. Adel spaccia per vivere e assieme a Mariano riforniscono praticamente tutto il quartiere. Pasta base, crack, marjuana… e poi… insomma un po’ di tutto. Però sono tipi tranquilli, e sanno farsi rispettare anche dalla polizia locale che li aiuta a coprire gli affari in cambio di una parte dei profitti.

Mariano ha un chiosco di bibite e sigarette e da alcuni giorni, proprio lì vicino, c’era un tizio non del quartiere che veniva a spacciare. Più volte Adel e Mariano gli avevano detto di andarsene, ma lui puntuale dopo qualche giorno tornava. Quella mattina Adel riattaccò il telefono e si vestì di corsa. Non si accese neppure la solita sigaretta prima di uscire in strada tanta era la fretta di andare. Anche io mi alzai e gli corsi dietro. Il tipo era di nuovo all’angolo del chiosco e questa volta bisognava dargli una lezione. Adel non è un tipo cattivo ma questa storia gli aveva fatto perdere la pazienza. Camminava veloce, io quasi correvo per stargli dietro. Adel è uno timido, e credo sia per questo che nel cammino si calò una pasticca. Comunque lì ho capito che le cose si sarebbero messe male. Faceva già caldissimo per strada e dovevamo zigzagare le pozzanghere”

Facendo una breve pausa, Eluana avvicina a se un foglio bianco e con la penna inizia a tracciare delle linee.

“ Questo è l’ingrasso di Villa Norte, qui abita il mio fidanzato” segnando una piccola x su un lato di un quadrato “ e qui c’è il chiosco di Mariano” segnando questa volta con un cerchio deciso l’incrocio di due vicoli. Con una linea incerta e leggera, Eluana segna invece il cammino che stavano facendo.

“Già da lontano Adel aveva visto il tipo e mi aveva detto di aspettarlo lì perchè non voleva essere visto con la fidanzata. Io mi siedo su un muretto perché avevo il fiatone e mi veniva da vomitare. Faceva caldo e poi ancora mi tornavano su le merde e la birra della sera prima. Mentre Adel entrava nel chiosco, Mariano stava sul retro a far finta di sistemare delle cassette vuote delle bibite. Come mi vede mi saluta, esce dal cancelletto del retro ma non viene verso di me. Fa il giro e va a chiudere le inferriate del chiosco. Stava per succedere qualcosa, e mentre ancora non avevo deciso se restarmene lì a reggermi lo stomaco o andare verso Mariano, sento un colpo, secco. Vedo il tizio scivolare sul muro alle sue spalle fino a sedersi e poi distendersi sul fango della calle Poblet. Mi alzo e corro verso Adel, mentre le grida del tizio corrono verso di me. Nella mia mente si fa vuoto tutto intorno. Adel afferra il tizio per un braccio e lo trascina dentro il chiosco di Mariano. Il sangue della ferita al ginocchio segnava con precisione la strada. Seguii Adel nell’oscurità del chiosco chiuso come in un giorno di festa. Solo allora lo guardai negli occhi.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”left” size=”1″ quote=”Mi porse una corda e mi chiese di aiutarlo. Io lo feci e insieme legammo i polsi della nostra rovina.” revealfx=”off”]

Riconobbi la dolcezza di sempre, il nostro amore e la lucidità dei suoi gesti. Adel stava facendo ciò che andava fatto, anche se era crudele, lui non poteva sbagliare e la vita qui non è facile. Mi porse una corda e mi chiese di aiutarlo. Io lo feci e insieme legammo i polsi della nostra rovina. Abbassai lo sguardo e ai miei piedi giaceva immobile e silenzioso il corpo magro di quel ragazzo. Gli occhi chiari, la fronte sbucciata e i capelli sudati. Ma i suoi lineamenti mi erano sconosciuti. Sembrava che il buio avesse inghiottito i corpi e il sangue. Insieme alla luce erano spariti i guai, le angosce, la miseria. In quel chiosco c’eravamo solo io, il mio amore e una questione da sbrigare. Era qualcosa di intimo. Quel buio era più cieco delle notti d’amore, più profondo dei nostri sentimenti. Non avevo più paura della mia vita in quel momento. E’ per questo che il colpo che Adel ha sparato alla testa del tipo è suonato alle mie orecchie come il rumore di un libro che si chiude. In quel buio abbracciai Adel, e fu un abbraccio sincero e infinito. Non una parola né dentro né fuori. Riconoscevo il suo sorriso soddisfatto solamente accarezzandogli il viso. La mia fronte grondava sudore, faceva caldissimo lì dentro. Mi diressi alla porta, la spalancai. La luce mi accecò, mi costrinse a riabbassare lo sguardo e a seguirla fino alla macchia di sangue che ci bagnava i piedi, e che si faceva sempre più grande a mano a mano che aprivo la porta. Fuori, tutto era ancora fango e miseria. Cercai Adel, alle mie spalle. Era l’orrore, la morte.

La polizia lo portò via con discrezione. Lui non sorrideva più, né aveva lo sguardo di un giusto. Io fui mandata via perché sono ancora minorenne. Adel deve scontare 9 anni. Mariano nessuno. Io voltai l’angolo e finalmente vomitai.

Il chiosco di Mariano riaprì pochi giorni dopo e lui sempre dietro quella grata, col broncio di sempre, come se nulla fosse mai accaduto. Uno di quei giorni decisi di passare a trovarlo. All’uscita dalla scuola, lungo la tangenziale Kennedy, incontrai un ragazzo che tentava di riaccendere la propria moto. Ma era cosi ubriaco che a mala pena riusciva a reggersi in piedi. Così lo aiutai e gli chiesi in cambio un passaggio per quelle poche centinaia di metri che mi separavano da Villa Norte. Anche lui andava da quelle parti. Mi misi io alla guida della moto e lo feci salire dietro. Non si capiva niente di quello che diceva perché era troppo bevuto però compresi che stava andando a rendere giustizia a chi pochi giorni prima aveva ammazzato il fratello. Mi si gelò il sangue. Già potevamo vedere il chiosco di Mariano sulla curva della strada che ci passava sotto. Fermai la moto, io ero arrivata. Non volevo più saperne niente. Sarei tornata sui miei passi dritto fino a casa.

Il ragazzo proseguì zigzagando sulla linea gialla della tangenziale. Presto dal chiosco di Mariano si alzò una densa colonna di fumo nero, che da lontano si confondeva con quelle dei mucchi di spazzatura che poco più giù nella discarica stavano bruciando. Del chiosco rimase solo cenere in pochi minuti”

La penna aveva disegnato i suoi racconti sul foglio. Un’insieme scomposto di linee che si incrociavano e si confondevano. Un groviglio di fatalità e destini che si rincorrevano come topi in gabbia. Ripercorrevo mentalmente quelle strade fatte di spazzatura e fango. Di cani randagi che si contendono un pezzo di miseria.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”right” size=”1″ quote=”La sua età era sospesa tra chi era troppo giovane per essere donna e chi è ormai troppo vecchia per essere bambina.” revealfx=”off”]

La sua età era sospesa tra chi era troppo giovane per essere donna e chi è ormai troppo vecchia per essere bambina. Le sue parole erano di chi già aveva vissuto tutto, di chi aveva provato sulla propria pelle la miseria delle passioni umane e la violenza dell’amore.  Per un attimo anche io, come lei, avrei voluto che aprendo la porta il sole avesse lavato via il sangue dalla strada, che non esistessero più vittime e carnefici. Ma i peccati sono il mondo. E io come potevo esprimere un giudizio? Uccidere è riprovevole, disumano. Ma le bestie forse non uccidono per sopravvivere? E se è vero che l’uomo ha la ragione, dovrebbe avere anche la dignità della giustizia, della libertà e dell’infanzia.

Riprese a disegnare. Un cuore questa volta. Poi una freccia. Le parole e i simboli del suo Newell’s. Una dedica. Io compilo il modello della scuola, ci metto il timbro perché tutti possiamo essere contenti. Mi porge il foglio, mi sorride e mi dice grazie, dottore.