Photographer, Journalist, Videomaker

Buenos Aires

Tradimento: A un passo dalla felicità, a un passo dal peccato

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Gliela hanno appesa al collo con un sottile nastro rosso, come a un cane. Altrimenti potrebbe ferirsi, le avevano detto. Da allora Lucia passeggia fischiettando nei lunghi corridoi e nei cortili, con una mano sempre sul petto, come a chi viene meno il respiro, per paura di perdere anche il ricordo.

Le si legge in volto il sollievo che prova nell’accarezzare con le dita quella medaglietta dorata. E’ la serenità di chi è convinto che il temporale passerà. Ma certo, non può immaginare chi le abbia portato quel ciondolo.

Ovviamente è stato Victor, giurerebbe la povera Lucia. Tra i suoi mille impegni, i suoi viaggi, non l’ha mai dimenticata. Sono passati 221 giorni da quel pomeriggio, dall’ennesima crisi. Tanti quanti i girasoli che ha disegnato sulla parete affianco al letto.

Sono 221 giorni che Lucia non fa l’amore, che non va al cinema, che non beve una birra, che non vede i suoi amici. Sono 221 giorni di tutto, o quasi. Stesa con lo sguardo sbattuto contro quel muro, Lucia passa ore a ricordare l’amore, le carezze, le mani di lui che le pettinavano i lunghi capelli.  A Victor non importa se Lucia sia o sembri matta, la ama ugualmente, anche con la sua follia, come ama la campagna e il vino. La scelta del ricovero era stata una decisione che avevano preso insieme. Avevano preparato una valigia di pochi vestiti, e qualche libro. Avevano dimenticato quel ciondolo, che raramente lei si toglieva di dosso. Ma i medici assicuravano che pochi giorni di terapia sarebbero stati sufficienti.

Ora Lucia è stanca di quella vita, e di stare sola. E’ stanca persino di essere matta, e gioca ad essere lucida. Poi si stanca anche di quello. Per finire a ingoiare altre pasticche amare, che la aiutano a sopportare la realtà, l’abbandono e gli eccetera. Aspetta solo il giorno che verrà, per disegnare un altro girasole nel suo campo umido e grigiastro, ai piedi del letto.

Strofina il suo ciondolo, e peccato – si dice – che Victor sia venuto mentre lei dormiva. Capita spesso ultimamente. Lo ha detto tante volte agli infermieri, di svegliarla quando viene il signor Victor, di darle meno farmaci, che non ha bisogno di dormire tanto, che già si sente meglio e pronta per uscire.

Fuori invece sono cambiate molte cose. Victor è morto da un mese, per un infarto. E ha lasciato a sua moglie Irene un vuoto duro e amaro. Con la scomparsa del marito Irene pensava di aver toccato il fondo della disperazione, poi si accorse che ancora non aveva perso tutto, che c’era altro da perdere, che il fondo in realtà non ha fondo.

All’apertura del testamento, il notaio aveva elencato i beni della successione. C’era una casa di troppo, della quale Irene non aveva mai sentito parlare in vita sua.

Ci mise quasi tre settimane a farsene una ragione e fu lo stesso notaio che la accompagnò al numero 82 di Calle Arenales, in un assolato sabato pomeriggio. Le suggerì di suonare il campanello della signora Utin; lei aveva le chiavi dell’appartamento. Lui non l’avrebbe accompagnata perché quelle sono cose dell’intimità. E lo disse rivolgendo lo sguardo altrove, accendendosi una sigaretta.

Irene salì fino al terzo piano e alzando lo sguardo, sugli ultimi gradini, le sembrò di trovare qualcosa di noto nel volto di quella signora, che la stava aspettando stringendo in mano il mazzo di chiavi. In effetti si erano incontrate qualche volta, per caso, in coda per l’Opera, o in metropolitana, quando Irene usciva in compagnia del marito. Non si erano scambiate mai più di un saluto. Victor era un uomo conosciuto e salutava talmente tanta gente ogni volta che passeggiava per i marciapiedi del centro, che quella signora, nell’immaginario di Irene non aveva mai ricoperto un ruolo più importante di un buonasera.

Ma in quel momento non poteva ricordare lucidamente tutto questo, tanto era costretta nel dolore e nell’imbarazzo di quella situazione, e rivolse un saluto quasi grato alla donna che custodiva le chiavi del suo mistero.

La signora Utin porse quelle chiavi a Irene, che non volle accettarle. Non erano sue. E con lenta gentilezza, sotto voce, disse “la prego, apra lei” e seguì la signora verso la porta dell’appartamento. Con l’aria di chi, giunto alla resa si sta togliendo un peso, la signora Utin infilò la chiave nella serratura. “Facendo qualcosa che non avrebbe avuto ritorno”, aprì la porta e fece un passo indietro.

Il buio di quell’appartamento sapeva di chiuso. Sul fondo dell’oscurità, solo i contorni della tapparella abbassata, gonfi di luce del sole di marzo.

Irene si chinò e raccolse alcuni foglietti pubblicitari, spinti sotto la porta chissà quando. Li osservò, ma i suoi pensieri si avvitavano nel limbo delle possibilità. Se ne sarebbe potuta andare immediatamente, costruendo chissà quali congetture sulle ombre del dubbio.

Rimase a lungo immobile. Poi prese fiato, socchiuse gli occhi, e facendo scivolare la mano sulla carta da parati della casa, accese l’interruttore. La signora Utin, ancora sul ballatoio, abbassò lo sguardo, come si fa in segno di rispetto quando passa la morte.

“Se avesse bisogno di me, abito nell’appartamento qui di fronte”, disse. E si ritirò.

Irene entrò a passi lenti, quasi chiedendo permesso. Camminò al centro della stanza, come in equilibrio su una fune invisibile, sospesa nel vuoto di quell’appartamento sconosciuto, illuminato dalla luce piatta e lattiginosa di un lampadario bianco.

Si guardava intorno cercando la ragione di quella casa, ma senza avvicinarsi a nulla.

Osservò il vecchio divano di velluto arancione, e un cuscino a terra. Una vetrinetta bianca, piena di scartoffie malamente impilate. Una vecchia borsa di pelle marrone, su una sedia, e una sciarpa di lino. Un tappeto, un telefono grigio, una ciotola con delle chiavi. Una pianta di ficus, ormai secca, riversa su una parete.

E li, su quello stesso muro, appese con ordine, tredici fotografie che ritraevano una coppia in città diverse del mondo. Parigi, Venezia, San Francisco, New York, Montecarlo, Iguazù.

Quella coppia erano suo marito Victor e sua sorella Lucia.

Tra quelle, un’immagine ritraeva anche lei. L’aveva scattata Victor alle due sorelle davanti al Pan de Azucar. Ventisette anni prima, quando Lucia si separò dal marito e la portarono in vacanza a Rio de Janeiro.

Irene non credeva ai suoi occhi. Rimase senza fiato davanti a quella verità. Le gambe iniziarono a cederle, il fuoco nello stomaco e poi il ghiaccio della disperazione. Le si annebbiò la vista.

Indietreggiò, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel muro. Irene riprese a camminare per la stanza, sfiorando con la mano gli oggetti e i pochi arredi. Si sentiva morire, voleva morire.

Entrò nella cucina, fatta di pochi pensili color legno, un frigo con ancora una bottiglia di champagne. Una tazza sul piccolo tavolo di formica, e una confezione vuota di biscotti Manon. Una lavagnetta appesa al muro, su cui la calligrafia della sorella aveva scritto, con un pennarello blu, “torno presto!”. La ricevuta di un ristorante di Puerto Madero e un posacenere vuoto sul tavolo.

Esanime e senza più espressione in volto, Irene continuò quella visita tra i fantasmi della vita. Entrò in camera, lasciò scivolare lo sguardo sulla trapunta a fiori, il quadro sopra al letto con i gauchos di Molina Campos, un paio di scarpe da tango, da uomo, vicino a un comodino. Un grande girasole dipinto, sulla parete con lo specchio. Nell’armadio un lungo abito da sera, di seta rossa. E in un angolo, una chitarra.

Continuava a guardarsi intorno, spaesata, incredula.  Non sapeva neppure che Victor ballasse il tango, e che sua sorelle suonasse ancora la chitarra.

Impotente, rovistava nei cassetti, frugava nelle pieghe più intime del sospetto.

Infine entrò in bagno, con il ghigno di chi osserva il disastro, e non trova niente da salvare.

Come poteva non essersi accorta mai di nulla? Infiniti attimi di quotidianità lontana si rincorrevano nella sua mente. Litigi, ansie, fantasie, dubbi affogati nella fiducia.

Irene incrocia il suo stesso sguardo nello specchio di quel bagno. Nei suoi occhi nudi rivede quelli della sorella e del marito, abbracciati e innamorati. Abbassa il capo, le braccia, si arrende.

Vicino al lavandino ancora i trucchi di Lucia, e la boccetta di  Air du Temps, lo stesso suo profumo. Lo stupido pensiero delle cose che avevano in comune, senza neppure saperlo. Poco più in là, vicino al portagioie, un ciondolo d’oro con la catenina spezzata.

Una smorfia attraversò il sul suo viso nello scoprire i delfini colorati che vi erano dipinti sopra; l’animale preferito di Victor. E ancora un colpo al cuore, quello di grazia, nel leggere l’incisione sul retro: “a un passo dalla felicità, a un passo dal peccato”. Era una frase che Victor portava con se da sempre, e da chissà dove. L’aveva voluta incidere anche in un bracciale regalato a lei molti anni prima.

Irene non ebbe più la forza di andare avanti, le veniva il vomito. Spense la luce alle sue spalle e si buttò in strada.

Camminò tutta la notte, percorrendo le strade del centro come fossero le rovine della sua vita, con una sola domanda in testa: “perché?”.

La vita con Victor era sempre stata felice, quasi perfetta. Su trenta anni di matrimonio non ricordava un periodo di crisi, di afflizione, di noia. Victor era stato un marito premuroso, un uomo sul cui amore si sarebbe giocata la vita, per il quale avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Invece poche ore erano bastate a sgretolare le convinzioni e i sentimenti di una vita intera. Perché non aveva avuto il coraggio di dirglielo? Chissà quanti viaggi di lavoro erano stati invece una fuga d’amore.

E sua sorella Lucia. Per quale ragione farle questo? Il suo matrimonio non aveva funzionato per colpa di Victor? E la lontananza che negli anni le aveva separate sempre più, anche questa doveva essere a causa del rapporto con Victor, e non per la sua malattia. Tutto era diventato una menzogna e la risposta a ogni domanda generava altre domande. Irene stava impazzendo, non riconosceva più le strade, la città, se stessa. Cominciava a sentirsi colpevole, stupida e sola. Mentre le strade della capitale si svuotavano e l’umidità della notte penetrava nelle ossa, Irene continuava a camminare, senza vedere la luce. Fino a che, nel cuore di quelle tenebre, maturò una decisione.

Tornò nell’appartamento di calle Arenales. Raccolse in due grandi sacchi tutti gli oggetti della casa. Ci infilò dentro il profumo, l’abito di seta, le scarpe da tango e la coperta a fiori. Quaderni, carte, lavagnetta e qualsiasi cosa le capitasse per le mani. Tirò giù dalla parete i quadretti con le fotografie e li gettò nel sacco.

Esausta si sedette sul divano, con le mani sul volto, circondata dal silenzio di quella notte eterna. Osservava la parete delle fotografie. Il tempo aveva lasciato il segno delle cornici sul muro. Davanti all’impossibilità di eliminare il passato, un fuoco di rabbia avvolse la ragione. Avrebbe voluto che tutto bruciasse. Lei compresa.

Riprese le fotografie, unica prova in fondo, del rapporto tra Victor e Lucia. Le osservò attentamente ad una ad una, cercando di ricostruirne gli anni, le occasioni, cercando bugie e risposte nei dettagli, negli abiti, nei gesti.

Ma tutto era troppo faticoso ormai, e senza alcun senso.

Perché Victor le aveva lasciato quel fardello? Perché Victor l’aveva lasciata sola?

Prese un coltello in cucina e iniziò a cancellare la verità. Grattò via dalle fotografie il volto del marito, e quello di sua sorella Lucia. Raschiò via i pezzi di corpi nudi, le mani che si sfioravano, i sorrisi. Cancellò se stessa da quella vacanza a Rio de Janeiro, che solo fino a poche ore prima ricordava come un momento felice. Ogni strappo nella carta era uno strappo nelle carni, e un sollievo al tempo stesso. Non si sarebbe mai fermata Irene, avrebbe cancellato tutto, anche la morte del marito se fosse stato possibile, e tutto sarebbe tornato come prima.

C’era una fotografia di Lucia nel cassetto del comò. Ritraeva la sorella il giorno dei suoi 15 anni. Loro madre aveva voluto fotografarla vicino al camino di casa, con l’abito bianco della festa e un rosario in mano. Anche quella foto doveva scomparire. Irene voleva solo che quel posto tornasse ad esserle anonimo e privo di significato come lo era fino a poche ore prima. Voleva riappropriarsi della sua verità, quella di sempre. Le strappò con veemenza il volto, il braccio, e gettò anche quel quadretto nel sacco nero con le altre fotografie.

Prima di uscire si ricordò del ciondolo con i delfini, lo prese e se lo infilò in tasca.

Raccolse i sacchi pieni di memorie da buttare, usci dalla casa e si tirò la porta alle spalle. Suonò il campanello della signora Utin, e le riconsegnò le chiavi.

Erano quasi le 8 del mattino, un tiepido sole filtrava tra i palazzi del centro. Irene abbandonò i sacchi sul marciapiede, vicino alla spazzatura. Salì su un taxi e si diresse all’ospedale psichiatrico Borda.

Per tutto il viaggio si chiese che cosa avrebbe detto alla sorella dopo tanto tempo e dopo tutta la violenza che le aveva procurato. Avrebbe voluto farle mille domande. Avrebbe voluto piangere. Avrebbe voluto ucciderla. Avrebbe voluto chiederle se è stata felice. Ma avrebbe anche dovuto dirle che Victor era morto, che adesso sarebbe stata per sempre sola.

Quando il taxi la lasciò nel cortile antistante l’ospedale, non ebbe la forza di fare nulla. Fermò un infermiere e gli consegnò il ciondolo, insieme ad una mancia, pregandolo di portarlo alla paziente Lucia Benedi. Era troppo tardi per capire o per spiegarsi. Irene, in fondo, voleva ancora una volta far solo finta di niente.

Quando trovai quelle fotografie, unite al resto delle cose di quella casa, tra i sacchi della spazzatura di Calle Arenales, non ebbi la prontezza di immaginare la storia che potessero nascondere. Raccolsi quei quadretti semplicemente perché affascinanti. Col tempo iniziai in maniera ossessionante a voler capire cosa fosse accaduto alle persone che vi erano ritratte.

Quasi un anno dopo, falliti i tentativi di indagine presso i portinai o i remiseros del quartiere, decisi di scrivere un annuncio e appenderlo a tutti gli alberi di quegli isolati. Questa azione non sortì un effetto immediato ma alcuni mesi dopo ricevetti una mail da una signora che si chiama Carmen Utin:

“ Il signor Victor era un uomo gentile, che ha saputo vivere con dignità la miserabile condizione umana dell’amare profondamente due donne … Victor e Lucia si sono incontrati in questo appartamento ogni sabato, e ogni pomeriggio di pioggia, che il Signore ha mandato in terra. Per 29 anni”.

Si chiama Escobar

Buenos Aires, 13 agosto 1995

Erano giorni strani, un po’ depressi e piovosi. Avevo cenato in un self-service all’angolo con la 9 de Julio. Un posto economico, con i tavolini di formica rossa anni 70, le sedie sbeccate e piene di briciole. Il portatovaglioli senza tovaglioli e il barattolo del ketchup color rosa pallido. Poi, finita l’ultima empanada, avevo percorso la strada a ritroso fino al Ritz Hotel. Pochi isolati affondati nel buio della notte porteña. Come al solito, sul riflesso bagnato dell’insegna luminosa del mio hotel, il piccolo Juanito mi aspettava con un pacchetto di Derby Light in mano. Il suo sorriso fatto di pochi denti scuri mi domandava se domani sera sarei ancora stato lì. Feci cenno di si con la testa e lasciando cadere due monetine da 1 peso nella sua mano tesa, gli augurai una buona notte. Quell’incontro puntuale, tutte le sere, mi rassicurava.

Ritirai la chiave della mia camera dal grasso portiere notturno e salii le scale fino al primo piano. La mia camera era la 111, con l’ 1 centrale scollato e appoggiato al primo.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”left” size=”1″ quote=”La mia camera era la 111, con l’ 1 centrale scollato e appoggiato al primo.” revealfx=”off”]

Meccanicamente mi spogliai e mi infilai a letto. Fissai per un po’ il ventilatore coperto di polvere sul tavolino della mia stanza, poi mi misi a scrivere sul mio diario di quei giorni confusi e pieni di incontri. Stavo giusto scrivendo di quando mi avevano puntato addosso una pistola a Ciudad Oculta, che sento bussare. Non aspettavo nessuno e solitamente se arrivavano visite per me, il portiere mi avvisava gridando dal piano inferiore il numero della mia stanza. Riabbassai lo sguardo sul mio taccuino, sicuro che stessero bussando alla porta accanto. Ma un istante dopo, tre colpi scossero il silenzio con più insistenza e fecero traballare il piccolo asciugamano appeso al chiodo sul retro della porta della mia stanza. Scesi dal letto, mi infilai i pantaloni e andai a vedere chi mai potesse cercarmi a quell’ora.

Aprii la porta e mi trovai davanti una ragazza. Esitai un attimo prima di rivolgerle un saluto che doveva suonare pieno di contraddizioni e domande. “ Ciao, mi chiamo Gabriela e sto qui alla stanza 116… sono sola, ti va di venire un po’ da me? “.

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Nell’istante in cui il mio viso diventò dello stesso colore della fòrmica anni 70, le mie gambe vennero trafitte da un fulmine nervoso e stanco che le fece vacillare. E’ il primo effetto che mi fanno tutte le ragazze belle. Le dissi che dovevo pensarci! Richiusi la porta anche un po’ scocciato di una simile sfacciata proposta. Ma pensare a cosa? Che risposta idiota! Mi tuffai sul letto divertito dalle sorprese del mondo, e pochi istanti dopo stavo bussando alla porta socchiusa della camera 116.

Sulla sinistra un letto a due piazze sul quale la ragazza stava distesa e al suo fianco un letto singolo. In entrambe i letti le coperte erano tese e profumate come se fossero appena stati rifatti. Con evidente imbrazzo salutai di nuovo la ragazza, richiusi la porta alle mie spalle sbirciando se qualcuno mi avesse visto entrare. Farfugliando qualcosa passai ai piedi del suo letto e andai a sedermi sulla punta dell’altro cercando di non sgualcire le coperte.  Nessuno di noi si scusò per l’intrusione nella vita altrui e dopo pochi attimi di silenzio, lei iniziò a raccontarsi.

Si chiamava Gabriela Maria Escobar, 21 anni, veniva da una cittadina del nord, vicino alle cascate dell’Iguazù e al confine Brasil-Paraguayano. Era a Buenos Aires da pochi giorni per venire a trovare il fratello più grande. Fino a quel giorno con lei c’era la sorella minore che però era tornata a casa per non assentarsi troppo da scuola e per non preoccupare la madre che non sapeva nulla di ciò che stava accadendo. Questo spiegava la presenza del letto sul quale ero seduto. Il fratello da 6 anni faceva il narcotrafficante e questa volta lo avevano beccato. Lo avevano portato al carcere di Mercedes, alla periferia di Buenos Aires. Era l’unico maschio rimasto in famiglia. Il padre era stato ucciso durante una sparatoria e il fratello maggiore era morto annegato dopo aver tratto in salvo lei e il fratello dal naufragio della barca di famiglia. La notizia dell’arresto del figlio sarebbe stata troppo dura perché la madre potesse sopportarla. Così le due figlie si sono fatte carico della situazione e l’avrebbero mantenuta segreta almeno fino a che non fosse stato certo il suo destino. La sua voce era fredda e sbatteva sulle pareti bianche della stanza, graffiate dalle ombre nere del calore dei termosifoni di ghisa. La sua lucidità nel raccontare questi fatti raccontava di una vita dura, la luce dei suoi occhi testimoniava forza e tenerezza. Ma io non ero cosi sicuro di volermi lasciar investire da un fiume di emozioni in piena. Neppure se provenivano da un’ affascinante sconosciuta distesa su un letto d’albergo nel cuore della notte.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”left” size=”1″ quote=”la luce degli occhi di Gabriela si trasformò in lacrime” revealfx=”off”]

Ma mentre pensavo a quelle cose, la luce degli occhi di Gabriela si trasformò in lacrime. I singhiozzi spezzarono le sue parole fino a renderle incomprensibili. Io che nel frattempo mi ero lentamente rilassato e accomodato sul mio spigolo di letto, sbalordito dai racconti della ragazza, fui riportato d’improvviso alla realtà. Mi guardai lì, seduto nella camera di una sconosciuta che stava piangendo un destino crudele. Le mie parole di circostanza sembravano non raggiungere neppure Gabriela che si era voltata e mi dava le spalle. Continuavo a chiedermi che cosa c’entrassi io in tutto ciò e che cosa mi trattenesse ancora lì. A braccia conserte e con un’espressione da finto compianto in volto, aspettavo il momento per salutare e tornarmene dritto a letto. Ma ancora una volta il comportamento di Gabriela mi sorprese. Rivolgendosi bruscamente a me, domanda: “ ti da fastidio se mi spoglio?”. Pensando di togliere entrambi dall’imbarazzo le proposi di lasciarla sola, ma Gabriela si stava già togliendo la maglia di lanina color ocra.  Posò i piedi a terra e alzandosi dal letto si tolse anche la canottiera.  Si diresse ai piedi del suo letto senza neppure rivolgermi lo sguardo e tolse il reggiseno. Quando si carezzò i seni mi domandai se io a quel punto dovessi fare qualcosa. Poi infilò una maglietta sgualcita col logo della birra Quilmes. Mi sorrise, si tolse i pantaloni e tornò verso di me. Immagino che il mio sguardo puntasse dritto alla fuga delle mattonelle di graniglia del pavimento, mentre nervoso attendevo che Gabriela mi saltasse addosso. Invece deviò e si infilò sotto le coperte del suo letto.

Tirai un sospiro. Non era nè sollievo, nè dispiacere nè ansia, solo un segnale che ero ancora vivo. Guardai l’orologio, le 3. Dissi che me ne sarei andato a letto e lei mi propose di dormire lì, nel letto della sorella. Non solo non sono mai stato brillante in  queste situazioni, ma questa volta qualcosa mi diceva che facevo bene a dubitare della circostanza. Quindi rifiutai. Mi informai però sui suoi programmi per il giorno seguente. Come al solito alle 6.30 avrebbe preso il bus diretto a Mercedes per andare a trovare il fratello. Ma prima avrebbe cambiato hotel. Esattamente dirimpetto al Ritz c’è un’altra pensione che costa un paio di dollari in meno. Mi propose di trasferirmi con lei. Le spiegai che non potevo perché il mio recapito di lavoro era qui, ma l’avrei accompagnata volentieri la mattina seguente e magari avremmo fatto colazione assieme. Mi avvicinai alla porta, le spensi la luce e mentre nel buio si smarriva il suo gracias, chiusi dolcemente la porta.

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Tre ore dopo suonava la sveglia.

Scivolai fuori dalle coperte cercando invano di non svegliarmi. Mi sciacquai la faccia e uscii. Incontrai Gabriela sulle scale, con un grande borsone celeste che non avevo visto nella sua camera. Eravamo in ritardo entrambi all’appuntamento e non c’era tempo per fare colazione. Le portai il bagaglio dall’altra parte della strada fino alla porta della Pension Tropical. Gabriela avrebbe lasciato i bagagli nel nuovo hotel e sarebbe scappata al Retiro per non perdere il bus. Ci demmo appuntamento al Tropical per le 12.30, quando sarebbe stata di ritorno da Mercedes e avremmo avuto tempo di chiacchierare un po’. Tornai in camera assaporando le ore di sonno che mi separavano dal mezzogiorno. Questa storia cominciava ad intrigarmi, Gabriela era certamente strana ma aveva un bel corpo. Mi riaddormentai sereno.

Con una puntualità tutta europea e un po’ fuori luogo, alle 12,30 pregavo l’anziano portiere della pensione Tropical di avvisare la señorita Gabriela Escobar della mia presenza.  Nonostante la pensione avesse pochissime stanze e ancor meno ospiti, il portiere non tradì alcun dubbio e non esitò a consultare più volte il registro degli ospiti. Alle sue spalle un gatto rosso si rotolava sul tavolino del telefono. “Non c’è nessuno con questo nome, ragazzo!” sentenziò il portiere. Impossibile. Gli feci notare che io stesso avevo accompagnato la ragazza la mattina stessa, verso le 6.15 circa. Cercai di descrivere Gabriela, alta, capelli scuri lisci e lunghi, formosa, con una giacca verde e dei jeans blu appena un po’ consumati sotto le ginocchia. Con un sorriso paterno mi disse che lui era sempre stato su quello sgabello e questa mattina non era arrivato nessun nuovo cliente, tantomeno una bella ragazza. Ma certo, Gabriela accortasi del tremendo ritardo ha portato il bagaglio con sè a Mercedes e si registrerà in hotel al suo ritorno. Mi sembrava una giustificazione plausibile, anche se quando l’ho salutata era già con un piede dentro l’hotel. Come mai l’anziano portiere non si era accorto di lei? Comunque sollevato per aver risolto in maniera logica il mistero, mi congedai dal portiere avvisandolo che sarei tornato più tardi e pregandolo di avvisare la ragazza al suo arrivo che poteva trovarmi al Ritz.

Passai il pomeriggio riordinando gli appunti, le idee e fumando. Il canale televisivo Cronica mostrava le immagini dell’ennesimo omicidio nella periferia bonarense. Le telecamere indugiavano sul rivolo di sangue di un corpo riverso sull’asfalto mentre il cronista farneticava fantasie spacciate per verità sulla dinamica dell’assassinio.  Un uomo gridava mentre la mano di un passante copriva l’obiettivo della telecamera. Poi le previsioni del tempo. Sole su tutto il Paese. E nuove immagini di sangue, questa volta da un incidente stradale sulla General Paz. E’ un canale televisivo grottesco, il mio preferito. Questa realtà schizofrenica mi portò alle 18. Non era arrivata nessuna telefonata per me così decisi di andare a trovare Gabriela. Aprii la finestra nella speranza che il fumo dolciastro delle Derby se ne andasse. Fuori aveva ricominciato a piovere. Attraversai la strada balzando tra una pozzanghera e l’altra. Mi strofinai la testa come per asciugarne i capelli, spinsi con forza la porta di vetro nero della pensione Tropical. L’anziano concierge non si era mosso di un centimetro da quando me ne ero andato; sempre sul suo sgabello, sempre col gatto alle sue spalle. Lo salutai e chiesi di Gabriela Maria Escobar.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”left” size=”1″ quote=”Cominciavo a sentirmi un idiota e la cosa iniziava a indispettirmi un po’.” revealfx=”off”]

Abbassando lo sguardo sul registro e scuotendo il capo dopo un istante mi ripetè che non c’era nessuno con quel nome. La mia delusione era evidente. Tornai ancora una volta sui miei passi, ringraziandolo e dicendogli che magari sarei tornato l’indomani, nel frattempo se fosse arrivata… Cominciavo a sentirmi un idiota e la cosa iniziava a indispettirmi un po’. Io stesso l’avevo accompagnata quella mattina. E che bisogno c’era di darmi un appuntamento se voleva andarsene? Mi venne un dubbio. Mi affrettai a domandare al portiere del mio hotel quale fosse il nome reale della ragazza che alloggiava nella 116. Forse mi aveva dato un nome inventato!

Non fu facile estorcere la scheda di registrazione della ragazza ma il giovane ciccione alla fine fu comprensivo e mi aiutò. Gabriela Maria Escobar, 21 anni, passaporto paraguayano e residente a Puerto Rico, Misiones – Argentina. Non aveva inventato nulla. Vedere i suoi dati scritti nero su bianco mi scosse un pò. Come se tutto ciò che era accaduto diventasse più pesante e drammaticamente reale. Ripensai alla notte passata, ai suoi racconti e mi assalì un senso di colpa per la goffaggine con la quale mi ero comportato e che certo non l’aveva confortata. Ma cosa voleva da me, sesso? O solo sfogarsi? O forse entrambi… ma perché proprio io?

Vagabondai fino a tardi per le strade della città tra il Congresso e la Casa Rosada, mangiando un carlito jamon y queso. Mi infilai al Tortoni a bere un tea di boldo e ascoltare un po’ di tango. Attesi Juanito sulla porta del mio hotel, indossava delle scarpe da ginnastica bianche. Gli domandai dove le avesse trovate e mi accesi una sigaretta. Invidiavo la sua serenità sbruffona e la dignità nell’indossare quegli stracci che portava come preziosi broccati. Chiacchierammo un po’. Compassionevoli frasi fatte e luoghi comuni che si perdevano nel silenzio del buio metropolitano. Soffocai il mozzicone della mia sigaretta con la punta della scarpa e mi congedai dal piccolo Juanito, stanco come solo una giornata vuota può stancare. Mi infilai a letto e dormii profondamente.

Nel cuore della notte il vecchio telefono della mia camera trilla affaticato e mi sveglia. Sollevo la cornetta, rispondo. “Sono Gabriela…”.

Una luce rossa fangosa proveniente dalla strada inondava la mia camera. Era l’insegna luminosa della Coca Cola che aveva ripreso a funzionare al di là della strada.

[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#FFFFFF” align=”right” size=”1″ quote=”“Gabriela!? …dove sei finita?” “Non ti preoccupare, sto bene. Volevo solo risentire la tua voce e ringraziarti per ieri notte.” revealfx=”off”]

“Gabriela!? …dove sei finita?” “Non ti preoccupare, sto bene. Volevo solo risentire la tua voce e ringraziarti per ieri notte. Ti prego di dimenticare me, il fatto che ci siamo conosciuti e anche questa telefonata. Non mi cercare più, è meglio… ” Continuavo a domandarle dove fosse, a dirle che avrei potuto raggiungerla. Ma Gabriela aveva riattaccato.

Riagganciai la cornetta e rimasi immobile, con una mano sul telefono e lo sguardo perso nel rosso vischioso di quella notte. Chissa quando l’insegna della Coca Cola aveva ricominciato a funzionare?

Per molto tempo mi domandai che cosa volesse e chi fosse stata realmente quella ragazza. Finchè un giorno sfogliando un famoso giornale scandalistico latinoamericano, la rividi con un bimbo di appena due anni in braccio. Gabriela Maria Escobar, nipote di Pablo Emilio Escobar Gaviria, figlia di Victoria Escobar, arrestata per omicidio e detenzione di stupefacenti il 20 aprile 1998.