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Tradimento: A un passo dalla felicità, a un passo dal peccato

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Gliela hanno appesa al collo con un sottile nastro rosso, come a un cane. Altrimenti potrebbe ferirsi, le avevano detto. Da allora Lucia passeggia fischiettando nei lunghi corridoi e nei cortili, con una mano sempre sul petto, come a chi viene meno il respiro, per paura di perdere anche il ricordo.

Le si legge in volto il sollievo che prova nell’accarezzare con le dita quella medaglietta dorata. E’ la serenità di chi è convinto che il temporale passerà. Ma certo, non può immaginare chi le abbia portato quel ciondolo.

Ovviamente è stato Victor, giurerebbe la povera Lucia. Tra i suoi mille impegni, i suoi viaggi, non l’ha mai dimenticata. Sono passati 221 giorni da quel pomeriggio, dall’ennesima crisi. Tanti quanti i girasoli che ha disegnato sulla parete affianco al letto.

Sono 221 giorni che Lucia non fa l’amore, che non va al cinema, che non beve una birra, che non vede i suoi amici. Sono 221 giorni di tutto, o quasi. Stesa con lo sguardo sbattuto contro quel muro, Lucia passa ore a ricordare l’amore, le carezze, le mani di lui che le pettinavano i lunghi capelli.  A Victor non importa se Lucia sia o sembri matta, la ama ugualmente, anche con la sua follia, come ama la campagna e il vino. La scelta del ricovero era stata una decisione che avevano preso insieme. Avevano preparato una valigia di pochi vestiti, e qualche libro. Avevano dimenticato quel ciondolo, che raramente lei si toglieva di dosso. Ma i medici assicuravano che pochi giorni di terapia sarebbero stati sufficienti.

Ora Lucia è stanca di quella vita, e di stare sola. E’ stanca persino di essere matta, e gioca ad essere lucida. Poi si stanca anche di quello. Per finire a ingoiare altre pasticche amare, che la aiutano a sopportare la realtà, l’abbandono e gli eccetera. Aspetta solo il giorno che verrà, per disegnare un altro girasole nel suo campo umido e grigiastro, ai piedi del letto.

Strofina il suo ciondolo, e peccato – si dice – che Victor sia venuto mentre lei dormiva. Capita spesso ultimamente. Lo ha detto tante volte agli infermieri, di svegliarla quando viene il signor Victor, di darle meno farmaci, che non ha bisogno di dormire tanto, che già si sente meglio e pronta per uscire.

Fuori invece sono cambiate molte cose. Victor è morto da un mese, per un infarto. E ha lasciato a sua moglie Irene un vuoto duro e amaro. Con la scomparsa del marito Irene pensava di aver toccato il fondo della disperazione, poi si accorse che ancora non aveva perso tutto, che c’era altro da perdere, che il fondo in realtà non ha fondo.

All’apertura del testamento, il notaio aveva elencato i beni della successione. C’era una casa di troppo, della quale Irene non aveva mai sentito parlare in vita sua.

Ci mise quasi tre settimane a farsene una ragione e fu lo stesso notaio che la accompagnò al numero 82 di Calle Arenales, in un assolato sabato pomeriggio. Le suggerì di suonare il campanello della signora Utin; lei aveva le chiavi dell’appartamento. Lui non l’avrebbe accompagnata perché quelle sono cose dell’intimità. E lo disse rivolgendo lo sguardo altrove, accendendosi una sigaretta.

Irene salì fino al terzo piano e alzando lo sguardo, sugli ultimi gradini, le sembrò di trovare qualcosa di noto nel volto di quella signora, che la stava aspettando stringendo in mano il mazzo di chiavi. In effetti si erano incontrate qualche volta, per caso, in coda per l’Opera, o in metropolitana, quando Irene usciva in compagnia del marito. Non si erano scambiate mai più di un saluto. Victor era un uomo conosciuto e salutava talmente tanta gente ogni volta che passeggiava per i marciapiedi del centro, che quella signora, nell’immaginario di Irene non aveva mai ricoperto un ruolo più importante di un buonasera.

Ma in quel momento non poteva ricordare lucidamente tutto questo, tanto era costretta nel dolore e nell’imbarazzo di quella situazione, e rivolse un saluto quasi grato alla donna che custodiva le chiavi del suo mistero.

La signora Utin porse quelle chiavi a Irene, che non volle accettarle. Non erano sue. E con lenta gentilezza, sotto voce, disse “la prego, apra lei” e seguì la signora verso la porta dell’appartamento. Con l’aria di chi, giunto alla resa si sta togliendo un peso, la signora Utin infilò la chiave nella serratura. “Facendo qualcosa che non avrebbe avuto ritorno”, aprì la porta e fece un passo indietro.

Il buio di quell’appartamento sapeva di chiuso. Sul fondo dell’oscurità, solo i contorni della tapparella abbassata, gonfi di luce del sole di marzo.

Irene si chinò e raccolse alcuni foglietti pubblicitari, spinti sotto la porta chissà quando. Li osservò, ma i suoi pensieri si avvitavano nel limbo delle possibilità. Se ne sarebbe potuta andare immediatamente, costruendo chissà quali congetture sulle ombre del dubbio.

Rimase a lungo immobile. Poi prese fiato, socchiuse gli occhi, e facendo scivolare la mano sulla carta da parati della casa, accese l’interruttore. La signora Utin, ancora sul ballatoio, abbassò lo sguardo, come si fa in segno di rispetto quando passa la morte.

“Se avesse bisogno di me, abito nell’appartamento qui di fronte”, disse. E si ritirò.

Irene entrò a passi lenti, quasi chiedendo permesso. Camminò al centro della stanza, come in equilibrio su una fune invisibile, sospesa nel vuoto di quell’appartamento sconosciuto, illuminato dalla luce piatta e lattiginosa di un lampadario bianco.

Si guardava intorno cercando la ragione di quella casa, ma senza avvicinarsi a nulla.

Osservò il vecchio divano di velluto arancione, e un cuscino a terra. Una vetrinetta bianca, piena di scartoffie malamente impilate. Una vecchia borsa di pelle marrone, su una sedia, e una sciarpa di lino. Un tappeto, un telefono grigio, una ciotola con delle chiavi. Una pianta di ficus, ormai secca, riversa su una parete.

E li, su quello stesso muro, appese con ordine, tredici fotografie che ritraevano una coppia in città diverse del mondo. Parigi, Venezia, San Francisco, New York, Montecarlo, Iguazù.

Quella coppia erano suo marito Victor e sua sorella Lucia.

Tra quelle, un’immagine ritraeva anche lei. L’aveva scattata Victor alle due sorelle davanti al Pan de Azucar. Ventisette anni prima, quando Lucia si separò dal marito e la portarono in vacanza a Rio de Janeiro.

Irene non credeva ai suoi occhi. Rimase senza fiato davanti a quella verità. Le gambe iniziarono a cederle, il fuoco nello stomaco e poi il ghiaccio della disperazione. Le si annebbiò la vista.

Indietreggiò, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel muro. Irene riprese a camminare per la stanza, sfiorando con la mano gli oggetti e i pochi arredi. Si sentiva morire, voleva morire.

Entrò nella cucina, fatta di pochi pensili color legno, un frigo con ancora una bottiglia di champagne. Una tazza sul piccolo tavolo di formica, e una confezione vuota di biscotti Manon. Una lavagnetta appesa al muro, su cui la calligrafia della sorella aveva scritto, con un pennarello blu, “torno presto!”. La ricevuta di un ristorante di Puerto Madero e un posacenere vuoto sul tavolo.

Esanime e senza più espressione in volto, Irene continuò quella visita tra i fantasmi della vita. Entrò in camera, lasciò scivolare lo sguardo sulla trapunta a fiori, il quadro sopra al letto con i gauchos di Molina Campos, un paio di scarpe da tango, da uomo, vicino a un comodino. Un grande girasole dipinto, sulla parete con lo specchio. Nell’armadio un lungo abito da sera, di seta rossa. E in un angolo, una chitarra.

Continuava a guardarsi intorno, spaesata, incredula.  Non sapeva neppure che Victor ballasse il tango, e che sua sorelle suonasse ancora la chitarra.

Impotente, rovistava nei cassetti, frugava nelle pieghe più intime del sospetto.

Infine entrò in bagno, con il ghigno di chi osserva il disastro, e non trova niente da salvare.

Come poteva non essersi accorta mai di nulla? Infiniti attimi di quotidianità lontana si rincorrevano nella sua mente. Litigi, ansie, fantasie, dubbi affogati nella fiducia.

Irene incrocia il suo stesso sguardo nello specchio di quel bagno. Nei suoi occhi nudi rivede quelli della sorella e del marito, abbracciati e innamorati. Abbassa il capo, le braccia, si arrende.

Vicino al lavandino ancora i trucchi di Lucia, e la boccetta di  Air du Temps, lo stesso suo profumo. Lo stupido pensiero delle cose che avevano in comune, senza neppure saperlo. Poco più in là, vicino al portagioie, un ciondolo d’oro con la catenina spezzata.

Una smorfia attraversò il sul suo viso nello scoprire i delfini colorati che vi erano dipinti sopra; l’animale preferito di Victor. E ancora un colpo al cuore, quello di grazia, nel leggere l’incisione sul retro: “a un passo dalla felicità, a un passo dal peccato”. Era una frase che Victor portava con se da sempre, e da chissà dove. L’aveva voluta incidere anche in un bracciale regalato a lei molti anni prima.

Irene non ebbe più la forza di andare avanti, le veniva il vomito. Spense la luce alle sue spalle e si buttò in strada.

Camminò tutta la notte, percorrendo le strade del centro come fossero le rovine della sua vita, con una sola domanda in testa: “perché?”.

La vita con Victor era sempre stata felice, quasi perfetta. Su trenta anni di matrimonio non ricordava un periodo di crisi, di afflizione, di noia. Victor era stato un marito premuroso, un uomo sul cui amore si sarebbe giocata la vita, per il quale avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Invece poche ore erano bastate a sgretolare le convinzioni e i sentimenti di una vita intera. Perché non aveva avuto il coraggio di dirglielo? Chissà quanti viaggi di lavoro erano stati invece una fuga d’amore.

E sua sorella Lucia. Per quale ragione farle questo? Il suo matrimonio non aveva funzionato per colpa di Victor? E la lontananza che negli anni le aveva separate sempre più, anche questa doveva essere a causa del rapporto con Victor, e non per la sua malattia. Tutto era diventato una menzogna e la risposta a ogni domanda generava altre domande. Irene stava impazzendo, non riconosceva più le strade, la città, se stessa. Cominciava a sentirsi colpevole, stupida e sola. Mentre le strade della capitale si svuotavano e l’umidità della notte penetrava nelle ossa, Irene continuava a camminare, senza vedere la luce. Fino a che, nel cuore di quelle tenebre, maturò una decisione.

Tornò nell’appartamento di calle Arenales. Raccolse in due grandi sacchi tutti gli oggetti della casa. Ci infilò dentro il profumo, l’abito di seta, le scarpe da tango e la coperta a fiori. Quaderni, carte, lavagnetta e qualsiasi cosa le capitasse per le mani. Tirò giù dalla parete i quadretti con le fotografie e li gettò nel sacco.

Esausta si sedette sul divano, con le mani sul volto, circondata dal silenzio di quella notte eterna. Osservava la parete delle fotografie. Il tempo aveva lasciato il segno delle cornici sul muro. Davanti all’impossibilità di eliminare il passato, un fuoco di rabbia avvolse la ragione. Avrebbe voluto che tutto bruciasse. Lei compresa.

Riprese le fotografie, unica prova in fondo, del rapporto tra Victor e Lucia. Le osservò attentamente ad una ad una, cercando di ricostruirne gli anni, le occasioni, cercando bugie e risposte nei dettagli, negli abiti, nei gesti.

Ma tutto era troppo faticoso ormai, e senza alcun senso.

Perché Victor le aveva lasciato quel fardello? Perché Victor l’aveva lasciata sola?

Prese un coltello in cucina e iniziò a cancellare la verità. Grattò via dalle fotografie il volto del marito, e quello di sua sorella Lucia. Raschiò via i pezzi di corpi nudi, le mani che si sfioravano, i sorrisi. Cancellò se stessa da quella vacanza a Rio de Janeiro, che solo fino a poche ore prima ricordava come un momento felice. Ogni strappo nella carta era uno strappo nelle carni, e un sollievo al tempo stesso. Non si sarebbe mai fermata Irene, avrebbe cancellato tutto, anche la morte del marito se fosse stato possibile, e tutto sarebbe tornato come prima.

C’era una fotografia di Lucia nel cassetto del comò. Ritraeva la sorella il giorno dei suoi 15 anni. Loro madre aveva voluto fotografarla vicino al camino di casa, con l’abito bianco della festa e un rosario in mano. Anche quella foto doveva scomparire. Irene voleva solo che quel posto tornasse ad esserle anonimo e privo di significato come lo era fino a poche ore prima. Voleva riappropriarsi della sua verità, quella di sempre. Le strappò con veemenza il volto, il braccio, e gettò anche quel quadretto nel sacco nero con le altre fotografie.

Prima di uscire si ricordò del ciondolo con i delfini, lo prese e se lo infilò in tasca.

Raccolse i sacchi pieni di memorie da buttare, usci dalla casa e si tirò la porta alle spalle. Suonò il campanello della signora Utin, e le riconsegnò le chiavi.

Erano quasi le 8 del mattino, un tiepido sole filtrava tra i palazzi del centro. Irene abbandonò i sacchi sul marciapiede, vicino alla spazzatura. Salì su un taxi e si diresse all’ospedale psichiatrico Borda.

Per tutto il viaggio si chiese che cosa avrebbe detto alla sorella dopo tanto tempo e dopo tutta la violenza che le aveva procurato. Avrebbe voluto farle mille domande. Avrebbe voluto piangere. Avrebbe voluto ucciderla. Avrebbe voluto chiederle se è stata felice. Ma avrebbe anche dovuto dirle che Victor era morto, che adesso sarebbe stata per sempre sola.

Quando il taxi la lasciò nel cortile antistante l’ospedale, non ebbe la forza di fare nulla. Fermò un infermiere e gli consegnò il ciondolo, insieme ad una mancia, pregandolo di portarlo alla paziente Lucia Benedi. Era troppo tardi per capire o per spiegarsi. Irene, in fondo, voleva ancora una volta far solo finta di niente.

Quando trovai quelle fotografie, unite al resto delle cose di quella casa, tra i sacchi della spazzatura di Calle Arenales, non ebbi la prontezza di immaginare la storia che potessero nascondere. Raccolsi quei quadretti semplicemente perché affascinanti. Col tempo iniziai in maniera ossessionante a voler capire cosa fosse accaduto alle persone che vi erano ritratte.

Quasi un anno dopo, falliti i tentativi di indagine presso i portinai o i remiseros del quartiere, decisi di scrivere un annuncio e appenderlo a tutti gli alberi di quegli isolati. Questa azione non sortì un effetto immediato ma alcuni mesi dopo ricevetti una mail da una signora che si chiama Carmen Utin:

“ Il signor Victor era un uomo gentile, che ha saputo vivere con dignità la miserabile condizione umana dell’amare profondamente due donne … Victor e Lucia si sono incontrati in questo appartamento ogni sabato, e ogni pomeriggio di pioggia, che il Signore ha mandato in terra. Per 29 anni”.

Suicidio: La vita rinasce in 4 secondi.

Nessun uomo al mondo più di Kevin Hines può dire che quando tutto sembra finito, la vita è pronta a rinascere. In quattro secondi.

“Testa indietro, gambe dritte, e Dio mi salvi”. A queste tre cose cercava di pensare mentre volava nel vuoto, per ottanta metri, dal Golden Gate Bridge. Quattro secondi di caduta libera, poi l’impatto con l’acqua. Le ossa delle gambe si frantumano una dopo l’altra. Poi il torace e le braccia, in un istante. E giù, quaranta metri sotto le acque gelide del Pacifico.

 

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Kevin, diciannove anni, si era buttato per suicidarsi e aveva scelto il ponte più famoso della sua San Francisco, perché li vanno tutti quelli che vogliono farla finita. Quasi uno alla settimana nello scorso anno. Ma nel momento in cui Kevin ha abbandonato il suo corpo al vuoto, tutto è cambiato e si è aggrappato al cielo. “Appena mi sono buttato è come se il male fosse uscito dalla mia mente, e non volevo più morire” dice. Con le braccia spezzate si affannava cercando la superficie tra i flutti fangosi della Baia, travolto dalle sei correnti oceaniche che qui si scontrano. “Ancora sott’acqua mi sentii sfiorare da una cosa viva. Pensai a uno squalo, e maledissi il destino” racconta. Poi si rese conto che questo animale lo spingeva sempre più su, col muso, con la schiena, fino a tenerlo a galla con piccole spinte. Era un leone marino, che lo aiutò per dodici minuti, fino all’arrivo dei soccorsi. Questo fu per Kevin Hines il battesimo di una nuova vita.

A dire il vero, Kevin non sarebbe neppure il suo nome. Lui si chiama Giovanni Maria Ferralis ed è di origini sarde. Suo padre Martino, cagliaritano, emigrò a San Francisco negli anni 70’ e li conobbe Marcilla, una giovane messicana che presto divenne sua moglie. Erano emigrati per cercare una vita felice, e invece trovarono prima l’eroina. Vivevano spostandosi da un motel all’altro, scappando ai creditori e alla polizia. E lasciando il piccolo Giovanni da solo, chiuso in camera per giornate intere, nelle peggiori periferie della California. “Loro se ne andavano e io piangevo disperato, ma nessuno sembrava sentirmi. Finché un giorno, avevo poco più di due anni, bussarono alla mia porta. Era la polizia”. Giovanni fu portato in un orfanotrofio, e i genitori in prigione. “Trascorsi quasi tre anni in quella casa per senza padre, con la speranza che una famiglia vera mia accogliesse.

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Ci furono vari tentativi di adozione, ma dopo un po’ di tempo mi riportavano sempre indietro” racconta oggi. Tra tutte le persone che andavano li a cercare un figlio, Giovanni si era affezionato a un uomo di nome Patrick. E di quella strana amicizia qualcuno doveva averne parlato anche a Martino, il suo padre biologico. Perché un giorno, appena uscito di galera, lui si presentò da questo Patrick e lo supplicò di prendersi cura del figlio. Il giorno seguente a quell’incontro Martino fu assassinato in una strada di Mission District, e Patrick firmò la richiesta ufficiale di adozione, cambiando il nome di Giovanni per Kevin, nella speranza di aiutarlo a dimenticare il passato.

“Patrick è un buon uomo. E’ uno che si è fatto da solo, diventando un grande professionista della finanza. Ha voluto una famiglia, ed è riuscito a costruirsi anche quella. Finché tutto cominciò a cadere a pezzi, quel giorno dei miei diciassette anni”. Kevin stava giocando a football nella squadra della scuola quando all’improvviso si convinse che tutti giocavano contro di lui. Si ribellò, gridò sbattendo a terra un compagno. Era così furioso che l’allenatore lo fece accompagnare a casa. Ma non si calmava e la madre lo portò da un medico. “In quell’ambulatorio pensavo ci fossero altri due pazienti oltre a me. E io parlavo come tre persone diverse” ricorda oggi Kevin. La diagnosi fu severa: bipolarismo.

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Da quel giorno le crisi diventarono un’ossessione. Si sentiva braccato, paranoico, impaurito. “Su e giù, su e giù, su e giù. Il mio umore cambiava mille volte al giorno. Era come un’onda gigantesca che mi investiva nei momenti più inaspettati. Avevo smesso di dormire da due settimane. Parlavo da solo. Ero distrutto, sfinito”. Kevin pensava che quella vita non sarebbe mai cambiata, che sarebbe impazzito. Da solo, nella sua camera tappezzata di poster dei San Francisco 49ers, digitò una parola su Google: suicidio. Le voci che ne uscirono gli sembravano incitarlo alla fine, e una su tutte lo colpì: chi si butta dal Golden Gate Bridge muore al primo impatto con l’acqua. Quelle parole erano per Kevin una calling card, e quello stesso 24 settembre scrisse una lettera alle persone care. Chiese perdono ai genitori e gli disse che li amava. Disse al suo miglior amico di trovarsi un altro miglior amico, e alla sua fidanzata che lei non aveva nessuna colpa in quella decisione. Poi prese l’autobus e scese alla fermata del ponte. “Ho camminato su e giù per quaranta minuti, piangendo disperato” dice Kevin. “Speravo che qualcuno si accorgesse di me, che qualcuno mi aiutasse”. Una donna bellissima e con grandi occhiali da sole lo avvicinò: “Le dispiace farmi una foto” gli chiese. Lui gliene fece cinque, poi le restituì la macchina fotografica e si avvicinò alla balaustra. “Una voce dentro mi disse: salta ora”.

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Erano le undici del mattino quando il padre Patrick, nel suo ufficio all’ultimo piano della Millennium Tower, ricevette una telefonata. “Mr. Hines? Suo figlio si è buttato dal Golden Gate Bridge”. Così, non una parola in più né una in meno. Patrick si fece accompagnare dalla segretaria al Trauma General Hospital e trovò suo figlio in una camera delle emergenze, trafitto da mille tubi che gli uscivano dal corpo. “Perdonami papà” riuscì a dire Kevin. “No, sei tu che devi perdonare me” rispose lui scoppiando in lacrime. Kevin, che non aveva mai visto il padre piangere, si addormentò con quell’immagine in un coma farmacologico.

Ma la vita gli aveva riservato ben altre meraviglie. Uscito dall’ospedale, entrò in un programma di recupero che gli fece trascorrere molti mesi in una clinica psichiatrica del South San Francisco. “Era un posto infernale, pieno di dolore, di violenti, di grida, di suicidi cronici. Ma a quel posto devo molto. Ho visto sul volto degli altri le mie paure, e lentamente ho imparato a gestirle”. Kevin conosceva bene le dinamiche del male, ne riconosceva ogni istante, capiva quando quell’onda stava per arrivare, e ben presto iniziò a rendersi utile. Era diventato quasi un consulente per gli infermieri del suo reparto, e questo gli valeva qualche privilegio: andare a messa con il padre, vestirsi con abiti normali anziché il pigiama bianco dei pazienti, e a lui era dato l’incarico di fare gli annunci al megafono. Un giorno d’estate, proprio mentre stava per annunciare l’ora del pranzo, Kevin si sentì picchiettare sulla spalla. “Mi voltai. Era una ragazza bellissima e mi innamorai. All’istante” racconta. “Scusi, lei è un infermiere” gli chiese lei. “No, sono un volontario” rispose lui senza esitare. Si chiamava Margaret ed era la cugina di Kirk, un giovane paziente arrivato da un paio di settimane. In tutto quel tempo non aveva detto neppure una parola. Droga, molta droga. Se ne stava seduto sulla sua sedia a rotelle, nell’ultima stanza del reparto, a guardare il mare. Kevin accompagnò Margaret lungo il corridoio fino alla stanza di Kirk ma quando furono sulla porta e Kirk li vide insieme esclamò: “Hei, ma quello è un pazzo che ha saltato dal ponte, non parlare con lui”.

Margaret andò a trovare tutti i giorni il cugino Kirk, e non mancò mai di salutare anche Kevin. I tre diventarono buoni amici, e quando furono fuori di li, le loro chiacchierate si trasferirono dalle panche di legno dell’ospedale alla tavola domenicale della mamma di Margaret. Fu il giorno del ringraziamento di otto anni fa che Kevin si fece avanti, invitando Margaret a cena fuori.

“Era la prima volta che uscivamo soli, e io ho combinato un disastro” dice Kevin sorridendo. Aveva indossato la sua camicia bianca più bella e l’aveva portata all’Original Joe, il miglior ristorante italiano di North Beach. Kevin aveva ordinato spaghetti all’aragosta, anche se non ne aveva mai vista una. “Pensavo che l’aragosta venisse servita in polpette, invece me la portarono tutta intera sopra una montagna di spaghetti”. Iniziò ad armeggiare nel tentativo di aprirla, sotto lo sguardo incuriosito di Margaret. Ma solo dopo aver macchiato tutta la camicia e la tovaglia con il sugo, riuscì a toglierne il guscio. Decise di spruzzarci del limone sopra, ma dal limone uscì un getto che andò dritto nell’occhio di Margaret. Lei gridò, iniziò a lacrimare, rigandosi il volto di mascara. “Era ridicolo, come mi muovessi combinavo un guaio, e tutti ci guardavano. Quando le ho ribaltato il burro sul decolleté abbiamo pensato che forse era meglio tornare a casa”.  Qualche giorno dopo Margaret e Kevin si ritrovarono nuovamente a cena della mamma di lei. Sul finir della serata andarono sul tetto di casa a guardare le stelle, e li, sotto il cielo di San Francisco, si scambiarono il primo bacio.

Si sono sposati sette anni fa, e da allora non si sono mai separati un solo giorno. Margaret conosce ogni angolo delle emozioni di Kevin, e sa come aiutarlo quando la malattia si affaccia all’orizzonte. Gli prende la mano e la stringe forte. “Questo è vero Kevin, queste nostre mani insieme” gli dice. E lui capisce che tutto il resto che la sua mente vede è solo un’orribile fantasia.

“In un giorno della mia lunga degenza in ospedale, si affacciò sulla porta della camera un prete, mingherlino, con un rosario in mano e il vangelo in una tasca. Mi chiese perché fossi li. Sono saltato dal Golden Gate gli dissi. Si, e io sono il Papa, mi rispose lui andandosene”. Pochi istanti dopo Kevin lo vide rientrare, pieno di scuse e di mortificazione. Si chiamava Padre George. “Mi accarezzò, pregò per me, e mi fece promettere che una volta fuori di li, avrei raccontato al mondo la mia storia” racconta Kevin, che oggi ha trasformato quell’impegno in una missione. Porta la sua testimonianza nelle scuole, nelle università, nelle aziende, dalla Silicon Valley a New York. “Perché chi è in difficoltà ha bisogno di una voce amica, e non è vero che chi si vuol suicidare prima o poi lo farà comunque. Il 96% di chi viene salvato nell’atto del suicidio, non ci prova più. Ci si uccide perché si è arrivati all’apice della solitudine, e perché ci si presenta l’occasione” dice Kevin. Per questa ragione, attraverso la sua testimonianza, ha raccolto in sette anni i soldi necessari per far installare una rete di protezione sul Golden Gate Bridge. Settantasei milioni di dollari, che finalmente nel 2015 metteranno fine a decine di gesti disperati. Quarantasei solo nel 2014, che portano il Golden Gate in testa alla macabra classifica dei posti più scelti al mondo per togliersi la vita.

Un anno dopo il suo tentato suicidio, Kevin volle ritornare al ponte, e chiese al padre di accompagnarlo. Raccolsero un fiore viola da un’aiuola e camminarono lentamente. Padre e figlio, tenendosi per mano, fino al luogo del salto. Piansero e pregarono insieme. Poi Kevin gettò quel fiore e lo osservò cadere, ondeggiando tra le carezze del vento. Quando si posò sull’acqua, un leone marino emerse.

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L’amore, un prete e una suora

“Avanti sorella, faccia presto” gridava Padre Oscar Bosisio con quanto fiato avesse in gola. Suor Fanny, immersa fino alle ginocchia nel fango, guadava le acque torbide del fiume Mansoa, nel cuore della Guinea Bissau, sorretta dalle mani di qualche donna del villaggio. Nel cielo terso dei tropici e sotto i fischi delle bombe, sventolava alta la bandiera bianca di Oscar, che si arrendeva alla guerra e al destino.

Giunta alla riva, nell’abbraccio fraterno di quel prete, suor Fanny si tolse il velo celeste del noviziato e tra le vie disastrate della guerra, disse: “Padre, non capisco perché strillasse tanto, ma si ricordi che d’ora in avanti io sono l’unico medico della città e lei l’unico prete. Credo che dovremmo aiutarci”.

Fanny Rankin aveva studiato medicina a Cuba, il suo paese natale. Era la studente migliore della facoltà e nel nome di quella Revolucion che portava nel cuore e che cantava per le vie di L’Havana a passo militare, aveva partecipato in gioventù a molte missioni governative, qua e la nella metà di mondo oltre il muro di Berlino. “La solidarietà marxista-leninista dipingeva un mondo perfetto, ma ciò che quel dogma generava era miseria, proibizione, incapacità di trovare risposte alle domande fondamentali della vita. Chi sono e dove sto andando”. Con queste parole oggi Fanny racconta l’oppressione di quei pensieri ai quali non trovava risposte, fino a quando la sua Revolucion non la portò per la prima volta in Guinea Bissau. “Mi avevano mandato per curare una popolazione ridotta alla fame, ma non avevo né medicine né cibo” racconta. Davanti a quella frustrazione, in una sera di lacrime, una suora clarissa le si avvicinò: “non resta che la speranza della preghiera” le aveva detto. Fanny, che dell’ateismo ne aveva fatto un credo, si ritrovò a sollevare le mani al cielo e a invocare l’aiuto di Dio. Nelle parole di quella suora aveva trovato il conforto della carità e un’amore che per tutta la vita aveva cercato. “Nella fede trovai l’equilibrio tra tutte le cose. La ragione del mio essere al mondo e l’impegno nell’aiutare gli altri” racconta. Mentre i compagni cubani salivano su un aereo per tornare in patria, Fanny scappò dal comunismo e si rifugiò tra le mura del convento di Bissau e i libri della Facoltà di Teologia di Roma.

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“Ogni fede diventa una gabbia nelle mani imperfette dell’uomo” racconta Fanny, che nell’agosto del 1998, quando scoppiò la guerra in Guinea Bissau, scappò anche dal suo Dio che la voleva chiusa in un convento a pregare, per tornare a sporcarsi le mani d’amore. Mentre tutti fuggivano dalla ferocia africana della guerra civile, Fanny guadava il fiume controcorrente per accogliere la richiesta di aiuto di quel Padre Missionario a cui ora non importava più quale divisa si vestisse, davanti alla morte non ci sono ideologie.

Quando Padre Oscar portò Fanny nella sua parrocchia, nel centro della capitale, ad aspettarli c’erano 13.000 persone, malati, feriti e affamati. “Qui non esiste più niente. Adesso che lei è arrivata, questa chiesa diventerà l’ospedale” le aveva detto lui. Nella biblioteca sistemarono i vecchi, la sagrestia divenne la sala parto, e la chiesa si trasformò nel reparto pediatrico. In un’ammirazione reciproca che cresceva ogni giorno, Fanny e Padre Oscar assistevano tutti, compresi i soldati del Presidente e i miliziani ribelli. Ma le medicine scarseggiavano mentre le prime epidemie iniziavano a diffondersi tra i feriti. “Una sola fiala di Valium e tre bambini con le convulsioni. Dovevo decidere ogni giorno chi viveva e chi doveva morire” racconta Fanny con il dolore ancora negli occhi. Alle mani giunte di una statua della Madonna venivano appese le flebo, mentre sotto una croce spezzata dall’artiglieria Padre Oscar tendeva le braccia ai centinaia di bambini abbandonati e malnutriti. Alberi e arbusti intorno alla parrocchia si spogliarono di ogni foglia, strappate dalla fame di migliaia di persone che le facevano bollire pur di avere qualcosa da mettere sotto i denti.

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“Eppure quella guerra è stata una maternità per la mia vita” spiega oggi Fanny. Non le servivano più le dottrine di Marx come le parole di Cristo; sotto le bombe che non fanno distinzioni, chiunque fu al suo fianco divenne per lei un fratello. E finalmente Fanny si scoprì libera di amare.

Una sera di novembre, nel silenzio della città affogata in una tregua, Fanny e Padre Oscar si ritrovarono seduti ai piedi del cristo mutilato, sul sagrato della chiesa. I loro corpi si sfioravano e i loro sguardi ormai non potevano più fuggire i sentimenti. “In guerra non c’è tempo per pensare all’amore. Ma ora, cosa facciamo?” aveva detto Fanny. “Sono un prete”, aveva risposto lui abbassando lo sguardo, come chi fugge la propria immagine riflessa in una stanza di specchi. “Domani tornerò a Roma” aveva poi aggiunto.

Dopo la partenza di Oscar, ci furono quasi sei mesi di silenzio, riempiti dalle centinaia di pazienti che ogni giorno Fanny visitava nella parrocchia e nei villaggi circostanti. La pace dei soldati sembrava reggere, ma nel cuore di Oscar era scoppiata una guerra inattesa. Lui che nella sua missione di fede, intrapresa all’età di tredici anni, aveva affrontato ogni disperazione umana nell’Africa nera, ora si sentiva impotente davanti alla forza delle emozioni e alle domande che la ragione gli imponeva. “Il Signore mi aveva messo davanti l’amore, e la chiesa mi chiedeva di negarlo, come nelle mie omelie dovevo negare l’uso del profilattico, quando tra le mie braccia morivano centinaia di donne e bambini malati di AIDS”. Chiedendo perdono, Oscar lasciò la croce che portava al collo sulla scrivania del Pontificio Istituto Missioni Estere di Roma, e con l’amore di Cristo nel cuore, tornò da Fanny nella sua Bissau.

“Ci amiamo incondizionatamente, compensando ogni giorno i vuoti dell’altro, finalmente senza sciocchi tabù” ammette Fanny mentre la sua mano cerca le carezze di Oscar.

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Insieme, con l’aiuto dell’ospedale Sacco di Milano e l’eredità di un amico prete, costruirono il primo centro per malati di AIDS del Paese che ancora oggi cura ottomila pazienti all’anno, tra donne e bambini. Mano nella mano, fino nelle remote regioni del Sonaco e della Bula , Fanny e Oscar hanno portato il loro aiuto vivendo la pienezza del loro amore, che nel gennaio del 2007 gli diede un figlio che chiamarono Alessandro. Con quell’angelo biondo dagli occhi celesti infagottato sulla schiena, come ogni donna africana, Fanny continuò la sua missione fino alla notte in cui il Paese cadde sotto la scure di un nuovo conflitto. Senza alcun bagaglio e col dolore nel cuore, Fanny e Oscar lasciarono la loro gente, per portare in salvo il piccolo Alessandro che aveva appena compiuto due anni. Lo stringeva forte a se Fanny, cantando una nenia in creolo, mentre la loro auto zigzagava tra le bombe e i posti di blocco. Raggiunsero il Senegal, e da lì l’Italia.

“Avremmo atteso di capire gli sviluppi militari, ci saremmo organizzati e saremmo tornati, perché quella gente aveva bisogno di noi, e noi di loro”.

Ma il destino voleva il loro amore sul fronte di un’altra guerra, che avrebbe stravolto ogni piano, per sempre. L’angoscia vissuta da Alessandro nella fuga, aveva scatenato in lui un forte stato di malessere. Nel calore della loro casa in Italia, lui stava seduto in un angolo, il capo rivolto al pavimento, incapace di pronunciare qualsiasi parola. Autismo fu la diagnosi dei medici. “Sapevo bene cosa significasse” dice Fanny, “e fu più doloroso della guerra” aggiunge. La ricerca delle cure migliori per il loro bambino, li ha portati fino a Miami, in una casetta dell’impeccabile provincia americana, col prato verde, le staccionate dipinte di bianco e una piscina nel backyard. Qui Fanny e Oscar vivono le loro giornate, scandite dagli orari delle terapie e dalla gioia di ogni piccola conquista di Alessandro. Ma la sera, appena lui si addormenta, loro si siedono davanti a una webcam e tenendosi ancora per mano, coordinano i medici nei loro centri sanitari sparsi per tutta la Guinea Bissau. “Alessandro oggi è la nostra missione, la nostra Africa di ogni giorno” spiega Fanny, “ma ogni suo sorriso è per me una rinascita” aggiunge, col tono di una madre che non ha paura.

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Chele*, il più grande malaffare del sud.

Ho incontrato Susana una sera d’autunno, alla confiteria Costa Rio, al 673 dell’avenida San Martin.

E’ una donna alta e corpulenta. Ha i capelli tinti castano-arancio. I lineamenti appena indigeni. Difficile darle un’età a prima vista. Il suo corpo ingombrante zoppica, e un bastone di legno scuro accompagna i suoi passi mentre mi viene incontro.

Mi avevano parlato di lei in città, della sua storia, e avevo impiegato molto tempo e molte telefonate per convincerla a incontrarmi.

Lei ha scelto il luogo del nostro appuntamento. Io le ho promesso che avrei raccontato questa confessione, ma lo avrei fatto lontano da li.

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“Solo una volta ho indossato un vestito da sposa. E fu per uno spogliarello”. Così dice Susana, senza che le sue parole tradiscano rimorso. Senza un’ombra di rancore. Mentre si accomoda a un tavolo della confiteria, quello vicino alla vetrina che da sulla strada.

E’ nata nella periferia di Tucuman nel 1954. Susana non è il suo vero nome. Maria Jimena, si chiamava. Però quel nome durò poco tempo, cosi come la sua vera madre. Maria Jimena fu scambiata per un televisore quando ancora non aveva un anno. Da quel momento, per il mondo, lei divenne Maria Flor. Questo era il nome che la nuova madre sognava per sua figlia ma, dato che di figli lei non poteva averne, decise di comprarla.

Non era la prima volta che, su nel nord, un bambino venisse ceduto in cambio di pochi spiccioli, o di un oggetto. Lo si fa per strapparlo alla miseria e dargli la possibilità di una vita migliore. Lo si regala talvolta, con un carico di dolore che solo la speranza e la sopravvivenza possono alleggerire.

Il 7 giugno del 1955 Maria Flor viene accolta dalle braccia della nuova madre in una coperta di cotone a fiori. La stessa stoffa che per anni adornò le finestre della sua camera, e che la donna aveva comprato al mercato di San Telmo, giù nella capitale.

Viaggiare a Buenos Aires era sufficiente da quelle parti per essere considerate delle persone agiate.

La mamma di Maria Jimena aveva osservato a lungo quella donna, prima di consegnarle la sua piccola. Aveva ben notato che vestiva abiti alla moda, sapeva leggere e scrivere, conosceva le persone che contavano e che, in fondo, un lavoro ce l’aveva. Secondario era ai suoi occhi il fatto che quella donna, per mestiere, facesse la puttana.

Nonostante la vita avesse riservato a Maria Flor un ambiente miserabile, la Susana di oggi ricorda quegli anni e quella matrigna, che mai chiama per nome, con estrema tenerezza e gratitudine. Ricorda gli anni giovani della sua vita come si ricordano tutte le infanzie. Con il sorriso della nostalgia stampato sulle labbra.

“Mi hanno insegnato a lottare e ad amare ogni giorno” dice.

E lo fa chiudendo la mano in un pugno nervoso e deciso, irrigidendo il braccio, come a dimostrare la sua forza.

Susana si accende una sigaretta, di quelle sottili. Sembra ridicola tra le sue grosse dita. Ma lo fa con un’ eleganza fuori dal comune , di chi nei gesti ha conservato tutto il garbo della seduzione.

“Ero bellissima da giovane, snella e bionda, prosperosa, la princesa mi chiamavano. L’età e le malattie mi hanno un po’ rovinato il corpo, ma non lo spirito”. E scoppia in una profonda risata, strozzata dai colpi di tosse, che di tanto in tanto le fanno drizzare la schiena.

La matrigna di Maria Flor aveva un compagno. Si chiamava Ruben e stava scontando una pena in carcere per rapina. Sin dal suo primo giorno di prigione, per tutti i martedì che Dio ha mandato in terra, la sua donna andò a trovarlo portandogli un piatto di humitas, ben raccolte nelle foglie tostate di mais, che preparava con l’aiuto di Flor la sera anteriore.

Sin dalle prime ore della mattina, le due si mettevano in fila all’ombra dei cedri insieme a decine di altre donne, aspettando di essere chiamate per il colloquio settimanale.

Un torrido martedì di novembre del 1970, il destino volle che Maria Flor andasse sola a consegnare il cestino di humitas a Ruben, perché la matrigna non si sentiva bene.

Quando dalla porta del carcere chiamarono il suo nome, Maria Flor lasciò la fila dell’attesa e attraversò il grande cortile di cemento e pietre intorno al quale si incrociano i bracci penitenziari zeppi di celle.

Camminava veloce e con lo sguardo rivolto verso il basso, per ripararsi dal sole e dal silenzio angosciante di quello spazio.

“Bionda!”, all’improviso, gridarono. Quella parola rimbalzò nell’aria bollente, resa ancor più soffocante dalla solitudine di Flor.

“Ehi, bionda!? A te!”. Maria Flor si guardò intorno. E in alto, verso il cielo. Solo due braccia, uscivano oltre le inferriate dall’ombra della finestra di una cella. “Bionda vienimi a trovare giovedì. Chiedi di Ruben Diaz. All’ora dei colloqui!”

“Maledetto quel giorno” dice Susana.

Si ferma un attimo, mentre incrocia lo sguardo di una coppia di giovani che passano tenendosi per mano sulla strada, al di la del vetro.

I 16 anni che bruciavano nel suo corpo, il fascino del mistero e il torbido della miseria. La voglia di essere grande e l’assenza di un padre.

Maria Flor quel giovedì andò all’appuntamento e consegnò il cuore e anima a quell’uomo, al di là del tavolo dei colloqui.

Per quanto ne sapesse poteva essere il peggior assassino della terra. Ma per ciò che i suoi occhi vedevano, e per quel nodo che le stringeva in petto, era l’uomo più bello del mondo.

Ruben uscì di galera due mesi dopo. Aveva 35 anni allora. E trovò Maria Flor ad aspettarlo.

Che grande fortuna Maria Flor. Un uomo che si prendesse cura di te. Non un ragazzo della strada, uno qualunque. Ma un uomo vero, maturo. Un duro.

Ruben aveva i capelli bianchi. Per questo tutti lo chiamavano, sempre con rispetto, “cabeza de ajo” (testa d’aglio).

Dimostrava molto meno della sua età. Era un tipo elegante. Sempre con la giacca e la cravatta, su una camicia ben stirata. Ostico all’apparenza. Eppure per Maria Flor era l’essere più dolce che avesse mai incontrato. Ogni parola di Ruben era per lei un saggio ordine, da seguire fino alla fine.

Susana estrae da una tasca interna alla sua giacca di lanina nera una piccola fotografia, dai colori sbiaditi. Lo fa con timore. Le sue mani accarezzano la foto come per rimuovere la polvere del tempo, poi me la porge come si porge una cosa preziosa.

La porta sempre con se, la conserva all’altezza del petto, vicino al cuore.

“Questo è Ruben” dice, indicando l’uomo ritratto.

Lui, in primo piano, guarda dritto in macchina con un accenno di sorriso. Indossa un pantalone beige a zampa d’elefante e una camicia verde pisello slacciata per metà, i becchi del colletto lunghissimi. Una sigaretta in mano. Una cintura con una grande fibbia d’argento. Alle sue spalle Susana, di tre quarti, distratta, un po’ sfocata. Con un vestito di cotone bianco, i capelli lunghi, e i piedi nudi sulla terra. Sul fondo le cascate dell’Iguazù e una piccola capanna di legno col tetto celeste. Sono all’angolo di una strada sterrata che si perde fuori dall’inquadratura, in una calda giornata d’estate, con le ombre corte, e nere.

“Qui eravamo in vacanza a Iguazù. Ci andammo appena lasciata Tucuman. La nostra prima vacanza. E l’unica. Mi diceva che un giorno saremmo stati così ricchi che avremmo vissuto in vacanza. Io stupida, ci credevo. Ero giovane e innamorata. Le parole di Ruben mi potevano portare ovunque”.

E anche se, una dopo l’altra, quelle parole hanno portato con se dolore e sacrificio, lo sguardo di Susana ancora vacilla, e la parola trema, davanti a quella fotografia che li ritrae.

Ruben era finito a Tucuman per un malaffare. Una bisca andata male, che lo ha portato in prigione. E aveva giurato a se stesso che se ne sarebbe andato il prima possibile. Voleva tornare nella sua Capitale. Voleva tornare ad essere il timbero (lunfardo, significa giocatore) della notte porteña, quello che tutti i giocatori d’azzardo porteñi chiamavano “cabeza de ajo”.

Maria Flor si lascia convincere in fretta. Per i suoi 16 anni senza radici, Ruben aveva progettato un futuro da ballerina nella Capitale.

I giorni della vacanza d’amore sfuggono veloci e poche settimane dopo la scarcerazione, Ruben e Flor salgono sul bus che li avrebbe portati fino all’Obelisco de la Nacion. Il cuore di Buenos Aires.

Quante fantasie, quanti abbracci, quanti sogni in quel viaggio. Quell’autubus scalcagnato, che sobbalzava cigolante ad ogni minima buca, era per Maria Flor la carrozza più bella. Il mondo che neppure osava sognare era tutto li. Nell’avventura, nel viaggio, nell’amore per il suo principe che le sedeva affianco.

Susana non la prese male quando Ruben le disse che per la nuova vita, lei avrebbe dovuto cambiare nome. Serviva un nome più consono, più all’altezza dell’arte, più sognatore. Proprio così disse. Più sognatore.

“Susana” gli sembrava perfetto. Suona bene, disse. E fu così, attraversando di notte i campi del Chaco, che Ruben fece nascere Susana e fece morire per sempre Maria Flor. Senza che lei neppure se ne accorgesse, per la seconda volta, la sua vita veniva plasmata dal piacere di altri. Nello stesso istante, tacitamente, Ruben aveva vestito l’abito del caffiolo (parola lunfarda per indicare colui che vive della prostituzione della compagna).

Il primo locale dove Susana si esibì si chiamava Exotica. Si trovava nel pieno centro di Buenos Aires, in calle Corrientes, a pochi passi dalla Casa Rosada e da Puerto Madero.

Ruben le aveva comprato un vestito anni 30, e si era fatto prestare una lunga collana di perle finte e lunghi guanti di raso viola.

Susana ancora ricorda l’emozione dei primi passi su quel palco. Non provava vergogna, solo timore di sbagliare. Di non piacere a Ruben. Mentalmente cercava di ricordare le prove fatte in camera, mentre Ruben steso sul letto, gambe accavallate, dispensava consigli. E lei ballava, si dimenava cercando di tingere di sensualità quel suo fare ancora acerbo, ma che tanto sarebbe piaciuto ai clienti. Poi Ruben le diceva brava, battendo in alto le mani, e stringendo tra le labbra la sigaretta accesa. E, sempre, finivano col fare l’amore.

Sul palco sarebbe stato identico, gli aveva detto Ruben. Io sarò li a guardarti. E quando finisci il tuo show decine di mani ti applaudiranno. Tu corri da me, in camerino, e faremo l’amore.

“ Che tonta” dice Susana, contraendo le labbra e battendosi un pugno sul capo. “Testona”.

Ruben però non si era sbagliato. Susana era bravissima, e il pubblico la adorava. Forse non aveva l’esperienza delle altre. Ma in quel corpo giovane e morbido che si muoveva sul palco, c’era qualcosa di sincero che eccitava gli spettatori.

“Era l’amore” dice Susana. “Ballavo per amore del mio uomo”. E i miei occhi lo gridavano forte. “Ogni passo, ogni sospiro, ogni sguardo, erano per lui”.

Non le importava di trascurare il suo corpo, di venderlo o mortificarlo. D’altronde quel corpo non si sapeva neppure più a che nome rispondesse. Se non a quello di Ruben.

Il pubblico la amava, le gridava “hermosa”, “divina”, le gettavano fiori e pesos sul palco. E lei imparò presto a ricambiare l’amore delle platee.

Le offerte di lavoro si moltiplicavano di giorno in giorno. Il locali notturni della Capitale facevano a gara per averla.

All’inizio della primavera del 1973 Ruben le organizza una vera tournee. Santa Fe, Rio Negro, Neuquen, Bahia Blanca, Cordoba. Poi in Uruguay e in Paraguay. Sempre tutto esaurito. E il camerino stracolmo di fiori, lettere di ammiratori e regali.

Ruben sapeva perfettamente come dominare e proteggere Susana. Tu sei una diva, le diceva. Non devi mai concederti a nessuno. Lasciali credere ciò che vogliono, non dire mai di no, ma non metterti mai nella condizione di dover dire di si.

“Una sera un gruppo di Colombiani si innamorarono di me. Cominciarono a seguirmi in tutte le serate. Mi facevano arrivare in camerino regali preziosi. Orologi, collane, gioielli. Mi volevano portare in tournee in Colombia. Arrivarono perfino a offrire a Ruben di comprarmi. Ma Ruben ha sempre rimandato indietro tutti i loro regali, fino all’ultimo. I Colombiani sono pericolosi, diceva. Sono narcotrafficanti senza scrupoli. Ruben era cosi preoccupato della loro insistenza che decise di interrompere gli spettacoli per qualche tempo, fino a che non sparirono dalla circolazione.”

Erano anni d’oro. Susana e Ruben vivevano in luoghi lussuosi. Avevano a disposizione auto e autisti, i migliori ristoranti offerti dagli ammiratori. Con due mesi di lavoro si comprarono un hotel nella capitale. In diciassette giorni un’auto. Erano ricchi.

“Ruben perse tutto al gioco. Ma per noi, tutto era un gioco e non ci preoccupavamo. La ruota della fortuna girava, alla grande”

Una vita che quella Maria Flor di Tucuman non avrebbe neppure potuto immaginare, tantomeno Maria Jimena. Servita, riverita, col suo uomo che le faceva la valigia ogni volta, e chi la riconosceva le facevano il baciamano.

Eppure a Susana iniziava ad andare stretta. Non per il lavoro che facesse, che tutto sommato le scivolava addosso senza troppo fastidio. Ma perché aveva voglia di fermarsi un po’, di tornare a sognare abbracciata al suo Ruben. Sentiva il bisogno di ritrovare l’amore. Aveva voglia di avere un figlio.

E pochi mesi dopo rimase incinta.

“Stavamo bene, non ci mancava nulla. Champagne ogni sera. Inviti, cene, feste, eravamo sempre ospiti di persone importanti, politici e generali. Però cominciava a mancarmi la mia vita. Avevo voglia di un po’ di tenerezza e di mettere delle radici.”

Susana partorì il 12 novembre del 1979, alle 4,30 del mattino, nell’ospedale Italiano di Buenos Aires. Al figlio, un maschietto di appena tre chili e cento grammi diedero il nome di Miguel.

“ricordo gli istanti in cui lo allattai per la prima volta. Avrei voluto che non finissero mai”.

Per Susana era ora di uscire dal giro, tanto più che la gravidanza le aveva lasciato un corpo materno che non andava più bene per il raffinato pubblico Bonarense. Ruben, che al principio rifiutava l’idea di essere padre, si sentì enormemente fiero di suo figlio sin dal primo giorno in cui lo vide, e lo sollevò in alto, al cielo.

Promise a Miguel e Susana una vita nuova.

Presto avrebbero lasciato Buenos Aires.

In quegli anni di tormentata politica in Argentina, il sud offriva un buon rifugio e delle buone occasioni, lontani dai giochi di potere e dal sangue della dittatura che macchiava le strade della capitale.

Nel marzo del 1980, Ruben e Susana, col piccolo Miguel in braccio, scendevano dal treno che li aveva portati a Rio Gallegos, nella punta più a sud del continente americano.

Ruben non aveva scelto a caso il posto dove stabilirsi.

Rio Gallegos nasceva come base militare, avamposto dell’isola di Terra del Fuoco e retrovia delle isole Malvinas. Si era poi sviluppata con le vicine miniere di carbone del Turbio. E in questi anni era terra di approdo di tutti i ricchi stranieri che qui venivano a investire nelle sconfinate terre patagoniche. Il mercato della lana tirava e ogni giorno sbarcavano uomini in doppio petto dall’Inghilterra, dalla Scozia, dalla Spagna. Pionieri carichi di denaro, vicini al regime, in cerca di avventura. Rio Gallegos era una città fatta di soli uomini, rudi come il vento e la solitudine di queste latitudini. Uomini che quando non facevano affari, affollavano le rumorose taverne della città. Si ubriacavano di aguardiente e non di rado, facevano fischiare i coltelli.

Qui Ruben ritrovò alcuni amici degli anni lontani. Con loro ricominciò a lavorare col gioco d’azzardo, le bische clandestine e anche qui divenne per tutti “cabeza de ajo”.

Ottenne presto la notorietà che cercava e i suoi tavoli verdi, sul retro del caffè “los petroleros”, erano sempre affollati. Ovviamente non disdegnava di giocare lui stesso se considerava i suoi avversari all’altezza, e questo faceva si che le economie familiari fossero altalenanti, tra serate di grandi vittorie e insonni nottate di debiti.

Susana però era contenta, continuava di tanto in tanto a fare qualche spettacolo nei nights di Rio Gallegos. Certo, al pubblico sofisticato delle notti Bonarensi si era sostituita una platea fatta per di rozzi militari, minatori e gauchos.

“Gli apprezzamenti non saranno stati eleganti, ma ero sempre la donna di Cabeza de Ajo. Questo era sufficiente per frenare gli entusiasmi ed essere rispettata. Mi chiamavano la Signora” ricorda Susana con orgoglio.

“In quegli anni arrivarono moltissime ragazze per fare la vita a Rio Gallegos. Era un posto protetto, lontano dagli affetti, pieno di lavoro e ben pagato. Solitamente andavano a vivere giù, vicino al porto. Dividevano l’affitto di una casa e ricevevano i clienti a qualsiasi ora. Chiamavano le amiche, le compaesane del nord e affittavano una casa vicina. Così a poco a poco si è formato un quartiere che ancora oggi si chiama “las casitas”. Negli anni gli affari sono aumentati tanto che la città ha deciso di isolarlo e ora è dietro la prima pompa di benzina YPF, quando arrivi in città dalla Ruta 3, li c’è una strada sterrata che porta all’antenna radio… da li inizi a intravedere le prime luci rosse…”.

A Rio Gallego le estati sono corte e sempre ventose. Gli inverni freddi e silenziosi. Ma è in questi mesi che Cabeza de Ajo concludeva le serate migliori. E proprio per la notte più lunga del 1982, il solstizio d’inverno, aveva organizzato la bisca del secolo, come la chiamava lui. La sua più grande scommessa personale. Voleva rimanesse nella storia e ci riuscì.

Parteciparono i più grandi proprietari terrieri di Patagonia. Vennero da Buenos Aires, dal Cile e dall’Uruguay. Professionisti del gioco, alti gradi dell’esercito, politici e uomini d’affari. Inglesi, Croati, Irlandesi, Spagnoli. Tutti intorno ai 100 tavoli di panno verde che Ruben aveva allestito al Club Britannico.

Il gioco sarebbe cominciato alle 16,30, al calar del sole, e sarebbe  terminato solo alle 9,30 della mattina seguente. L’ora dell’alba.

“Ruben non volle che lo seguissi quella notte. Io lo avevo sconsigliato, stavamo bene e non volevo che ci giocassimo il futuro in quel modo. Passai tutta la notte in piedi, alla finestra, con Miguel che dormiva sul divano al mio fianco. Alle 5 del pomeriggio seguente non era ancora tornato. Pensavo al peggio. Poi invece lo vedo arrivare, sulla sua Ford falcon celeste. Scende, cammina a passo spedito verso casa. Cercavo di interpretare il suo volto senza espressione che si illuminava di arancio sotto ogni lampione della strada. Non sapevo cosa pensare. Entra, e si chiude la porta alle spalle. Mi abbraccia e mi dice che avevamo incassato 32 milioni di pesos. Una fortuna.

Siamo ricchi, pensai. La fine di qualsiasi problema. La vita nuova che ci aveva promesso, era arrivata. Lo abbracciai, baciai, felice come nel risveglio da un incubo. Ma durò solo un istante. Fino a quando Ruben mi disse che quei soldi non li avremmo tenuti noi. Li avremmo dati a un giovane. Nestor Kirchner si chiama. Mi sembrava la cosa più assurda che avessi mai sentito. Potevamo dimenticarci del passato, della vita di notte, dei debiti. E invece avremmo regalato il nostro futuro a uno sconosciuto. Dovetti aggrapparmi con tutto l’amore che provavo per Ruben alla fiducia che non gli avevo mai fatto mancare.

E comunque, anche questa volta, non potevo scegliere.”

Nestor aveva 34 anni, era di Rio Gallego e si era sposato pochi anni prima con Cristina, una sua compagna di studi. Entrambi avevano un passato di impegno politico, carcere e lotta rivoluzionaria. Peronisti.

Ruben aveva sentito parlare di Nestor da molti amici importanti. Glielo avevano presentato quella notte, tra i tavoli da gioco, in un aria spessa di fumo di sigarette e secco odore di whisky. Nestor aveva un progetto politico ambizioso e aveva le carte per realizzarlo. Ma per percorrere la sua scalata aveva bisogno di appoggi. Di soldi.

In quella notte australe, mentre tutti si giocavano tutto, mentre il Paese si giocava le ultime vite del suo misero esercito sulle isole Malvinas, Ruben decise di credere a quell’uomo. Gli promise l’incasso della serata, a patto che quel Nestor gli avesse dato la gestione dei casinò della Provincia, e magari del Paese, appena avesse potuto farlo.

Su quella parola spesa, Nestor ricevette l’incasso della serata per finanziare la sua carriera politica.

Anche se la ricchezza di Susana non durò neppure il tempo di un sogno, la gloria di quella storica notte consacrò lei e il suo uomo per lungo tempo. In tutta la città “la Señora e Cabeza de Ajo” erano salutati e accolti come illustri ospiti. Susana passeggiava per le vie del centro a braccetto di Ruben con una gioia che non aveva mai provato prima. La sua vita era piena di fortune, pensava.

“Il mondo mi crollò addosso la notte del 29 novembre 1982, quando Ruben fu assassinato sulla porta di una bisca.

Stava giocando a dadi con una coppia di inglesi. Si accorse che i dadi erano truccati, col piombo. Lasciò il tavolo insultandoli. I due lo inseguirono fino in strada, gli spararono, lo pugnalarono e nessuno li vide più. Ruben morì dissanguato in un angolo buio di strada.”

Cabeza de Ajo non ebbe il tempo di vedere che non si era sbagliato scommettendo sui giovani Kirchner. Nestor di li a poco divenne prima intendente della città, poi governatore della provincia fino ad essere eletto nel 2003 Presidente della Nazione. E ad accompagnarlo ci fu sempre la moglie Cristina, che lo successe alla Presidenza del Paese dal 2007 sino ad oggi.

“Mi ritrovai sola, in cinta e presto scoprii anche di dover pagare un sacco di debiti di gioco che Ruben aveva lasciato. Dovevo ricominciare a lavorare. Ma conoscevo solo un mestiere, e da quello ricominciai.” Dice Susana con la fierezza di chi ha passato ogni cosa.

Susana vendette l’unico fazzoletto di terra che le rimaneva e comprò una casita in quel quartiere di bordelli vicino al porto. La chiamò Venus. Si procurò alcune ragazze appena arrivate in città che in cambio di vitto, alloggio e una buona percentuale sulle prestazioni, soddisfacevano i clienti.

Susana conosceva così bene il mestiere e quella vita, che fu da subito considerata da tutte la miglior dueña. Anche qui cominciarono a chiamarla come in città, la Señora. Aveva per tutte una parola di conforto e nello stesso tempo il carattere fermo per guidare le ragazze o intimorire gli avventori troppo molesti. Susana ha servito bicchieri di ginebra dietro il bancone del Venus per infinite notti, mentre il piccolo Miguel dormiva in compagnia di una anziana donna di fiducia. All’alba tornava a casa, e faceva finta di essersi appena svegliata. Accompagnava Miguel all’asilo, e poi a scuola. Quella doppia vita sarebbe rimasta un mistero, almeno nella formalità delle conversazioni tra una madre e un figlio.

“Piangevo, eccome. Ma lo facevo di nascosto, perché la Señora non aveva bisogno di nessuno. Non ero felice.”

Nelle quattro stanze del Venus sono arrivate a starci più di venti ragazze nei periodi più caldi di lavoro. Di li sono passate minorenni, o ragazze in cinta. Ma loro non le ha mai fatte prostituire. Le metteva con la pancia sotto il bancone del bar a servire da bere.

Al massimo qualche ballo se il juke box cantava la musica adatta.

“Insegnavo alle ragazze tutti i trucchi del mestiere. Prima si paga e poi si va in camera. Se quando la ragazza mi porta i soldi, bussa sul bancone, io sapevo che dovevo mandare a chiamarla prima che passasse il tempo pagato.

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Chi voleva avere a che fare con me doveva stare alle mie regole. E tutti mi rispettavano. Una notte due stranieri ubriachi hanno avuto da ridire perché pretendevano una ragazza che io non volevo dargli. Li ho sbattuti fuori. Loro hanno tirato fuori un coltello. Allora dalle altre casitas sono uscite tutte le ragazze e hanno iniziato a tirargli dei sassi. Sono scappati e non si sono più fatti vivi. Mi volevano bene le ragazze, e se qualcuna aveva un problema anche con altre padrone, veniva da me e io le aiutavo. Erano tutte povere disgraziate che per inseguire l’amore erano finite per venderlo. Venivano quasi tutte dal nord, dalle province povere, dalle periferie. Alcune portavano le sorelle, altre studentesse che venivano a farsi una stagione per pagarsi gli studi. Madri sole che lasciavano i figli ai nonni e mandavano soldi alla famiglia ogni settimana. Ragazze finite nei guai che dovevano scappare dal mondo. Tutte venivano a rifugiarsi qua al sud, dove il mondo finisce. Di tutto è passato, e di questo tutto sono stata sempre la Señora, la loro amica. Fino a qualche mese fa, quando Miguel ha trovato lavoro all’ufficio del Ministero della Salute. Il primo giorno che è tornato a casa mi ha detto: “ mamma, in ufficio tutti sanno che lavoro fai…” Non l’ho lasciato finire la frase e gli ho detto che ci avevo già pensato e che giusto quel giorno avevo venduto la casita. E così feci. Il pomeriggio stesso vendetti Venus agli attuali proprietari.”

Susana si mise così a cercare un nuovo lavoro che potesse mantenere i pochi piaceri che le giornate della desolata Rio Gallego potessero dargli. Il fumo, un bicchierino ogni tanto, e il bingo tutte le sere che il portafogli glielo permettesse.

Ironia della sorte, Susana ha trovato lavoro nella cucina del Vescovado. La diocesi di Rio Gallego è una delle più importanti di Patagonia e capita spesso che ci siano ospiti di passaggio. Preti di lontane parrocchie o visite pastorali. Durante il suo primo giorno di lavoro, insieme alla perpetua della cattedrale, avevano preparato un pranzo per la visita del parroco di Rio Grande. Ormai al termine, tocca a Susanna servire il dolce. Dispone i flan di riso in un vassoio e si prepara alla sua prima uscita nella mensa cardinalizia. Ma non appena si affaccia nella sala da pranzo le si gela il sangue. L’ospite di riguardo della giornata, il prete di Rio Grande, lei lo conosceva fin troppo bene. Era stato più volte suo cliente a Venus.

“Che vergogna” dice Susana ridendo sguaiatamente, tenendo una mano davanti alla bocca, quasi per pudore.

“mentre servivo il budino di riso a testa bassa cercando di non farmi riconoscere, avevo in mente le immagini di lui nelle notti di bagordi, e tutti i vizi che più gli piacevano”. E raccontando ciò, Susana con una gesto mima le prestazioni più gradite dal bizzarro cliente.

“Non mi vergogno di nulla” riprende Susana, ora con fare serio. “Ho vissuto meglio che potevo la vita che mi è stata data. Se potessi tornare indietro non rifarei molte cose, ma l’amore, l’inesperienza, l’incoscienza si pagano. E io credo di aver saldato con onore tutti i debiti. Miei e di Ruben. Oggi sono nonna, ho un nipotino di 4 anni, figlio di Miguel. Si chiama Ruben, come il nonno. E’ la gioia della mia vita. Mi fa sorridere quando viene in camera mia. Sul comodino ho una scatola scura e lucida, sulla quale c’è scritto Ruben “Cabeza de Ajo”. Sono le sue ceneri, ma il piccolo non lo può capire e tutte le volte vuole aprirla perché pensa sia un regalo per lui”.

 

*Chele: in Lunfardo significa latte infelice.

Senza identità

Era salita e scesa per le scale del palazzo una ventina di volte. Nervosa, prima di suonare il campanello di quello studio dentistico nel cuore di Prati, a Roma. Barbara si era vestita elegante, truccata come per il giorno più bello. Sicuramente fuori luogo agli occhi delle altre persone, ma lei voleva colpirlo. Attese il suo turno per un tempo che le sembrò infinito. Seduta nella sala d’aspetto assieme a una manciata di altri pazienti, tra i giornali strappati dall’uso svogliato dell’attesa. Poi, finalmente, il dottor Michele Tripodi la accolse. Si presentò porgendole la mano e lei, ricambiando il gesto gli disse: “vorrei parlarle in privato prima della visita”. Il dottore la accompagnò nel suo studio. Seduto alla scrivania, osservava divertito quella bella ragazza che continuava a camminare da un lato all’altro della stanza, sguardo rivolto in basso. Barbara si fermò, e guardando negli occhi il dottore, fu per lei come vedersi allo specchio. “Forse non le interesserà, ma io sono sua figlia” disse, con gli occhi prima delle lacrime. “Prego, si accomodi” rispose lui, indicandole la poltrona.

Barbara è nata a Pesaro, concepita per errore il giorno in cui Michele diceva addio per sempre ad Anna. Si erano conosciuti sulle note di Ziggy Stardust durante una festa, una sera che Anna era scappata dalla finestra del collegio nel quale viveva. Da quella notte Michele, un giovane studente calabrese, divenne per lei il mondo intero. La loro fu una storia di pochi mesi, di quelle che si consumano da giovani, belli e onnipotenti, sotto i cieli umidi di stelle cadenti. Quel loro incontro si perderebbe negli angoli della memoria, se nel ventre di Anna non fosse rimasta la vita.

Barbara non ricorda nulla della sua infanzia, se non il sogno ricorrente di alte gambe di uomini, che affollavano il suo buio di bambina, senza mai mostrarsi in volto. Quando lei era ancora piccola, sua madre trovò un marito vero e Barbara, che non ricordava altro uomo all’infuori di lui, lo chiamò papà. Forse per questo Giuseppe Piperno, cosi si chiamava quell’uomo, decise di riconoscere la bambina come figlia naturale. Da quel giorno fu per tutti Barbara Piperno. Scomparvero i brutti sogni e la vita sembrava felice. Fino all’arrivo di un fratellino. Con lui, la storia d’amore tra i genitori iniziò a lacerarsi. Anna era sempre più distratta, assente. Tra litigi e silenzi. Troppe volte Barbara la chiamava, mamma, e lei non rispondeva. Spesso il padre se ne andava con il suo vero figlio e lasciava la piccola Barbara lì, in piedi sull’uscio di casa a piangere, e a domandarsi perché papà non volesse anche lei. Poi un giorno quell’uomo non tornò più, e quel vuoto si popolò di nuovi incubi.

Barbara fu affidata alle cure dei nonni materni e di una tata. Ogni giorno passava dalle classi di scuola a quelle del conservatorio, dove studiava flauto. Si rifugiò nei libri e nella musica, per dimenticare pensieri e lacrime. Fino a che, una sera dei suoi tredici anni, rientrando a casa, trovò la tata ad aspettarla in cucina. Nel pallore della luce neon, le consegnò una piccola scatola di cartone, dai disegni geometrici. La fece scivolare sulla tovaglia di plastica a fiori, fino alle mani riluttanti di Barbara. “Non devi soffrire più” le disse. “Giuseppe Piperno non è il tuo vero padre. Qui dentro troverai la verità”.  “Guardavo dentro la scatola, senza cercare niente. C’era la foto di un ragazzo sui vent’anni, e quella di un bambino. Qualche lettera. Quelle cose erano per me imprendibili. Ero troppo piccola per capire”. Barbara ripose la scatola in un cassetto, e con essa tutte le sue domande. Era l’adolescenza, voleva solo fuggire.

Fu per caso che, un pomeriggio nell’estate dei suoi diciassette anni, tra i libri del nonno, ritrovò quella scatola. “Non so come fosse finita li, ma feci un respiro profondo e la riaprii”. Quelle lettere parlavano d’amore, tra sua madre e Michele, allora studente di medicina. In una di queste Barbara trovò un numero di telefono. “Passarono mesi e infinite insicurezze, prima di decidermi a chiamare. Ma avevo bisogno di capire”.

Doveva mettere ordine a quella sua vita fatta di mancanze, di sete d’amore, di caos. Barbara cercava se stessa e avrebbe dovuto fare tutto da se. Così prese il telefono e con mano tremante compose il numero: “Mi chiamo Elsa e sono una ex-compagna di medicina di Michele” mentì. All’altro capo, da un paesino della Calabria, la zia dell’uomo. “Non vive più qui, e ha lasciato medicina per studiare odontoiatria. Ha uno studio dentistico a Roma. Le do il numero, gli farà piacere ritrovare una compagna di studi”.

Quindi la telefonata allo studio Tripodi. Alla segretaria che le rispose disse che le faceva male un dente, e si fece dare un appuntamento col dottore. Ai nonni invece, disse che andava a Roma per il concorso dell’orchestra sinfonica della Rai.

Barbara trascorse tutto il pomeriggio nello studio del padre (che lei chiama solo Michele). Parlarono a lungo, anche se lui andava e veniva tra una visita e l’altra.  “E’ un gran affabulatore, vive per piacere agli altri, gode delle sue belle auto e delle sue molte donne. Si è sposato, ha vari figli, ma non mi ha mai presentato nessuno della sua nuova famiglia” racconta Barbara. “Si divertiva a portarmi in giro, ristoranti e hotel di lusso. Gli piaceva farmi spesso regali, e anche giocare sull’ambiguità dell’essere accompagnato da una bella e giovane donna”. Passarono gli anni, frequentandosi di tanto in tanto. Barbara che sperava di trovare in lui un briciolo di sentimento paterno. E Michele che, barcamenandosi in una vita fatta di bugie e promesse non mantenute, cercava di dimostrare affetto, a modo suo. Finché una sera, mentre Barbara scaldava il flauto prima di un concerto, le squillò il telefono. Era la voce di un uomo sconosciuto: “tuo padre è in ospedale. Meningite. E’ in coma”. Barbara si precipitò a Roma, ai piedi del letto di suo padre Michele; che anche se non è quello che lei avrebbe voluto, spera in fondo che un giorno la chiami figlia.

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Nell’anticamera dell’ospedale c’era molta gente ad attendere in silenzio. Troppa, da far girare la testa. Erano genitori, mogli, figli, amanti. Erano le tante vite di quell’uomo. Si svelavano le menzogne e i volti senza che si udisse neppure una parola.

“Fu imbarazzante. L’unica a salutarmi fu sua sorella”. Non si fermò molto in quella situazione Barbara. Non aveva più nulla da attendere, più nulla in cui sperare da quell’uomo che era suo padre. Tornò a Pesaro e cercò ancora una volta di dimenticarsi di tutto. Si impose di guardare avanti, solo al domani, ai suoi affetti, alla musica. Forse ce l’avrebbe fatta se una mattina i carabinieri , suonando alla sua porta, non l’avessero ributtata tra le tempeste del passato. “Lei è citata in tribunale, perché il signor Piperno non la riconosce più come sua figlia” diceva la lettera che le recapitavano. “Sosteneva di essere stato ingannato da mia madre, che gli avrebbe fatto credere che io fossi davvero sua figlia. Lui, che arrivò nella mia vita quando avevo già tre anni” racconta Barbara. Lei vinse il primo grado, ma lui ricorse in giudizio. E per quelle capriole della burocrazia e della vita, Barbara perse il ricorso: ora le veniva tolto anche il cognome. Si doveva chiamare Barbara Miscio le dissero, come la madre. Per lei tutto questo non aveva nessun significato, solo rabbia. Tra le tempeste del suo inconscio e dei cambiamenti, in quegli stessi giorni, si fece vivo Michele, il padre naturale, guarito dalla malattia. Chiamava da una spiaggia calabra, e con stridente gioia annunciava a Barbara che l’avrebbe riconosciuta come figlia. Arrivava con trent’anni di ritardo. Barbara accolse la paternità, ma rifiutò anche quel cognome.

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Oggi Barbara ha un’identità diversa in ogni documento, e nell’anima. Ogni mattina si domanda “chi sarò oggi?”. Non sa cosa vorrebbe essere. Vorrebbe solo riuscire a ignorare il passato. Quando si guarda allo specchio cerca nei suoi tratti scuri e decisi un dettaglio che le indichi la via. “Non ho radici ma per tutti sono Piperno. Vorrei che almeno gli altri continuassero a riconoscermi”. Per questo ha supplicato il prefetto della sua città di aiutarla a recuperare quel cognome. Affiggeranno un annuncio in Prefettura, nel quale si dichiara che d’ufficio diventerà Piperno. Dovranno passare trenta giorni e nessuna opposizione, e Barbara tornerà al punto di partenza di tutta questa storia. Ma questa volta prenderà il suo flauto, e cercherà la strada che la porti il più lontano possibile.

Il colore del vento

Tierra del Fuego, 12 ottobre 1996

“Non credo che ci rivedremo” e mentre il vento freddo mi faceva lacrimare gli occhi, Yeremy mi diede un bacio, vergognoso e profondo.

Osservavo il piccolo tender arancione, con la punta di metallo, allontanarsi dallo scafo nero della Micalvi. La bandiera della nave frustata dal vento. Il mortaio di poppa rivolto verso il cielo. Osservavo lei, così piccola in quel mare scuro e severo. Costretto, nel pensiero e nella vista, dalle lingue di ghiaccio che si tuffavano in mare. Protetto dai fiordi alti, pareti infernali e scure e pungenti che delimitavano un corridoio sicuro nelle acque di Beagle, osservavo l’isoletta sul fondo del canale. Il faro rosso e bianco sembrava volersi tuffare, così proteso dalla punta della scogliera. Sulla riva antistante, una grande croce di ferro si ergeva dritta, tra la spuma della risacca e le rocce bianche di guano. Mentre il gommone a motore solcava a fatica le onde brune cercando di conquistare la riva, la mia mano tesa al cielo con un gesto che sentivo infantile, salutava la giovane Yeremy. Avrei voluto gridarle che il mondo stava dalla parte opposta.

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Yeremy l’avevo conosciuta il giorno prima. Eravamo gli unici due civili a viaggiare sulla nave d’appoggio Micalvi della Forza Navale. Ad onore del vero con noi c’era anche un medico, che vestiva un pesante cappotto nero, un cappello di feltro scuro e una sciarpa di lana rossa fatta in casa. Non so se lavorasse per l’esercito o fosse un civile, ma la cosa ha poca rilevanza poiché il dottor Zibì, questo il suo nome, come raggiunse la coperta della nave si chiuse nella sua cabina e ne usciva solamente per riempire il suo thermos di acqua calda.

Yeremy Morales invece aveva 14 anni, figlia di un errore e di una madre che per donarle la vita aveva perso la sua. Era bella, solare, piena di energie e ottimismo. E non voleva andare a vivere con lo zio nella base militare di Puerto Harris.

Quando la nave salpò da Puerto Williams la sera prima, il molo era pieno di persone. Erano i parenti dei marinai che affidavano i loro figli al mare per 6 mesi d’inverno. Tra tutti c’era un signore magro che portava degli occhiali grandi e scuri, nonostante la luce fredda dell’imbrunire australe non avesse la forza di disegnare neppure le ombre delle cose.

Quell’uomo abbracciava una ragazza. Quell’uomo stava piangendo. Lei si abbandonava al suo abbraccio con una rassegnazione che tradiva la supplica di non lasciarla andare. Il rispetto per l’intimità di quel gesto mi spinse ad abbassare lo sguardo.

La Micalvi lasciò la baia di Puerto Williams con due fischi di sirena. Le persone sul molo si facevano sempre più piccole, a mano a mano che la nave prendeva il largo. In poco tempo quelle figure umane si persero nella penombra del villaggio tanto che non era più possibile distinguere neppure quell’uomo che, solo e immobile, era rimasto in piedi là dove il molo finisce. Il blu della notte inghiottì presto anche la scia della nostra nave che ora sembrava muoversi sospesa tra cielo e mare.

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La navigazione avveniva al buio poiché le acque della nostra rotta erano acque militari, contese da sempre tra Argentina e Cile. Il cielo era terso e ricco di stelle. Il vento si era placato. Se fuori era freddo e buio, sottocoperta viveva un mondo rumoroso, festoso e accogliente. Furono i giochi dei soldati e della giovane cuoca che mi fecero avvicinare a Yeremy, e fu il mal di mare che ci fece passare la notte più fuori che dentro. Coperti da un poncho militare ascoltavamo il ruggito delle onde che ci sorprendevano nell’oscurità ora a dritta e ora a poppa, in un caos primordiale e feroce. Era uno spettacolo irresistibile, un gioco pericoloso e allettante quello di riuscire ad arrivare nella parte più alta della nave senza farsi sorprendere da un’onda. Dall’alto del ponte, prigionieri di una libertà infinita, gridavamo al buio i nostri sogni. Giocavamo a dare un colore al vento e dopo una farneticante discussione concordammo che se il vento avesse un colore, questo sarebbe il rosso. Non esisteva più ghiaccio, sale, vertigine che non fosse parte insostituibile di quella notte. Fradici d’acqua salmastra, ebbri di giocosa follia,  desistemmo solo quando un marinaio ci venne a chiamare per avvisarci che entravamo nel Pacifico e che il mare si sarebbe fatto ancora più duro. Rientrammo, ma il caldo torrido della coperta, le mappe appese ai muri con le rotte e i continenti, i giovani soldati che giocavano al truco in cambusa, erano lontani dal nostro stato d’animo. Preferivamo il mondo immaginato, ritagliato tra le stelle. Preferivamo la ricerca della complicità dell’altro, vivevamo la felicità di quella grande menzogna che è il primo incontro sapendo che sarebbe stato anche l’unico. Così di tanto in tanto aprivamo il portellone che si affacciava sul nulla e stavamo li, tra il reale e l’immaginario. Ci afferravamo a vicenda, guardavamo quei muri d’acqua alti tre volte la nave che si issavano dritti a poppa e che dopo un istante crollavano con uno schianto tremendo che sembrava dovesse spaccare lo scafo, e trascinare tutto e tutti nella sua spumeggiante ritirata.

Poi Yeremy cominciò a vomitare e neppure io mi sentivo molto bene. Per alcune ore il mare fu tremendo, tanto che era impossibile persino stare stesi sulla branda della cabina senza esserne sbalzati fuori. Solo alle 11 della mattina seguente raggiungemmo delle acque più miti, tornando a navigare protetti da una miriade di isole e rocce emerse. Il sole splendeva alto nel cielo e il vento batteva implacabile la terra. Sibilava forte correndo tra sagole e stragli, si insinuava tra gli alberi bandiera e i pani degli indios, carezzava i muschi e si richiudeva in un vortice trascinando con se tutti i rumori. Poi solo il silenzio. Un istante, non di più. Ma abbastanza da desiderare che quel viaggio non finisse mai.

 

Yeremy dormì tutto il pomeriggio e quando il marinaio bussò alla porta della sua cabina per avvisarla che presto saremmo arrivati a Puerto Harris, dovette farlo con insistenza. Mentre la nave penetrava agile tra le gole di ghiaccio del canyon di Harris, io e Yeremy seguivamo dal ponte più alto l’avvicinarsi dell’isola, il saluto lontano dei soldati su al faro, le nubi correre nel cielo, i nostri nasi farsi rossi, gli occhi lacrimare. Consegnavamo le nostre poche parole all’eternità di un momento, respirando tutto ciò che avrebbe potuto essere, tutto ciò che abbiamo sognato e tutto ciò che non avremmo mai fatto. Io rimasi a guardare, mentre Yeremy si calava sul gommone già carico di provviste. Osservavo stupefatto la sua serenità e il destino che le camminava affianco. Mi dicevo che la felicità non dipende da quello che la vita ti dà. Mi chiedevo se anche un pezzetto di me sarebbe restato con lei su quella minuscola isola, mi domandavo se non sarebbe stato giusto tentare di dissuaderla. Che cosa avrebbe fatto in quell’avamposto del mondo sola con dei soldati? Respiravo profondamente.

Respiravo la vita e la fine. E quando i motori della nave tornarono a rompere le onde, lei si voltò, stava salendo il dirupo che portava al molo. Mi cercò, mi salutò gettandomi un bacio posato sulla mano e consegnato al vento come una preghiera.

La nave riprese il largo, mentre il giorno tramontava e il faro si accendeva. Costeggiando il versante di levante dell’isola, dove le rocce si facevano più rotonde e i caiquenes vanno a riposare, si potevano vedere le basse baracche della guarnigione, nere contro il sole che svaniva. Dai comignoli il fumo si perdeva rapido nel vento. D’oro si faceva il cielo. La distanza e il tempo avrebbe presto fatto scomparire quelle terre e le sue genti nel buio della notte. Già l’isola si faceva sempre più piccola all’orizzonte. Mi piaceva rimanere sul ponte, solo, sapere che mi avrebbero visto triste.

Poi balenò una luce vermiglia in cielo, la quale vinse qualunque mio sentimento.

Osservai l’isola ormai lontana. Scorsi solo la luce del faro che intermittente, affogava e riemergeva tra le onde del gelido mare.

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